Una ciocca di capelli di 300 anni fa, una storia di violenza e di coraggio nell’archivio arcivescovile

BRINDISI- (Da Il7 Magazine) Una ciocca di capelli, un ricciolo scuro per testimoniare la violenza con la quale era stata aggredita, è la straordinaria scoperta fatta negli archivi della Biblioteca Arcivescovile di Brindisi, un caso giudiziario vecchio di 300 anni. L’antico fascicolo giudiziario venuto alla luce proprio in queste ultime settimane risale al 1692 e porta con sé la storia di una donna che davanti al giudice per dimostrare di essere stata picchiata e malmenata da un uomo mostrava una ciocca strappata dei suoi capelli. La preziosa prova è stata ritrovata dopo 300 anni dalla direttrice del museo Katiuscia Di Rocco e dalle sue collaboratrici,  che in questi mesi si stanno occupando  dell’attività di catalogazione di tutti gli atti conservati nella sede di piazza Duomo a Brindisi. Nel museo infatti, sono custoditi gli atti del tribunale diocesano dal 1500 sino ai primi del 1800. UN piccolo tesoro documentale e non solo, evidentemente, dal quale emergono storie di straordinaria quotidianità. Nel caso della donna aggredita si evince dalle preziose carte che si trattava di una donna di Torre Santa Susanna che si era rivolta al tribunale religioso per avere giustizia nei confronti di un uomo che si era presentato nella sua taverna e l’aveva picchiata. “È uno dei pochi casi in cui sia stata la donna a denunciare – ha spiegato la direttrice Di Rocco – normalmente in casi come questi erano i mariti, i fratelli o i padri a rivolgersi al tribunale”. Anche questo dettaglio, tutt’altro che trascurabile, contribuisce a raccontare e definire gli usi e i costumi della vita di tre secoli fa. La prova della ciocca di capelli scuri, tra l’altro perfettamente conservata, si trovava all’interno del fascicolo, un piccolo e delicato ricciolo che era stato portato dinnanzi al giudice come prova della violenza subita. La documentazione alla quale è allegata la ciocca di capelli è piuttosto dettagliata e attraverso una attenta lettura è stato possibile ricostruire  tutta la storia.  “All’interno abbiamo trovato tutto –prosegue Katiuscia Di Rocco – la denuncia verso ignoti, le testimonianze di altre persone e la sentenza di condanna”.  In pratica negli atti si legge che la donna aveva sporto denuncia contro ignoti dopo che un uomo si era presentato alla sua taverna e l’aveva picchiata perché l’accusava di aver preso la sua giumenta. In realtà la cavalla era stata portata alla taverniera, che possedeva altro bestiame, da alcuni gendarmi che avevano trovato l’animale nei pascoli vicini. L’uomo accecato dalla rabbia non volle sentire ragioni  ed iniziò a colpirla violentemente sino a strapparle un ricciolo. La versione della donna venne confermata anche da altri testimoni uomini. L’aggressore fu così identificato e condannato a pagare 100 ducati alla vittima. Ma questa è solo una dei tanti ritrovamenti. Sempre durante l’attività di catalogazione emergono tante altre storie legate soprattutto alla violenze subite dalle donne come quella che porta un giudice,  brindisino di nascita e formazione, Carlo De Marco a firmare una sentenza storica nel 1770 in favore di una donna accusata di stregoneria. “E’ lui, Carlo De Marco, brindisino di nascita e di formazione ed io ne sono orgogliosa e tremo quando leggo il suo nome in calce al foglio- racconta la direttrice Katiuscia Di Rocco- E’ lui a Presiedere e firmare una sentenza storica nel 1770. Cecilia Faragò non è una strega. E’ grazie all’arringa del giovane avvocato appena ventenne, Giuseppe Raffaelli, e alla sua sentenza che il re Ferdinando IV abolisce il reato di “Maleficium” contro le Donne. E’ una di quelle sentenze che hanno cambiato la Storia e Carlo De Marco ha avuto il coraggio nel 1770 di apporre la sua firma”. Cecilia nasce in un paesino della Calabria, Zagarise, e una volta andata in sposa a Lorenzo Gareri, si trasferisce a Soveria Simeri dove di mestiere fa l’erborista. Utilizza quindi allume di Rocca, incenso, altea, nasturzio, sabina e salsa solutiva per curare e non uccidere perché per quello basta l’ignoranza. Viene accusata di “fattuccheria”, viene accusata di aver ucciso un uomo con il suo “occhio maligno” e con una polvere magica preparata da un’altra donna, Anna Scarcello, gettatagli addosso da un’altra donna ancora, Laura Fratto. “Il giovane avvocato Raffaelli dimostra con un’arringa costruita sui fatti e con parole del calibro di “grossezza, amarezza, sconcia favola, scellerate menzogne, impostori temerari, collera, balordi uomini e ignoranza” chi sono i veri assassini e costruttori di bugie che hanno fatto imprigionare e torturare Cecilia per impossessarsi dell’eredità che le spetta- racconta ancora la Di Rocco- Il processo ha fine il 29 dicembre del 1770: gli impostori devono pagare 400 ducati alla donna per i danni morali ed un nuovo processo si deve aprire contro di loro. Dopo due mesi i carnefici chiedono scusa a Cecilia e le offrono 1000 ducati perché non li trascini in tribunale. E’ lei a dover decidere. Una donna e va avanti con il processo”. Straordinaria anche questa storia che racconta il coraggio delle donne in periodi storici in cui proprio la figura femminile era messa agli angoli della scala sociale e né tanto meno si poteva immaginare che potesse aver credito in un processo. Ma dall’Archivio Storico Diocesano di Brindisi, uno scrigno di tesori nascosti, salta fuori anche una lettera di San Giovanni Bosco datata  1879. Non solo, in un altro fascicolo spuntano anche alcuni pallini di un fucile come prova della lite tra due uomini. L’attività di catalogazione è ancora in corso e non è escluso che ancora tante storie e tante preziose testimonianze possano essere scoperte.

 

 

 

Lucia Pezzuto

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