LA STORIA- I tre anni successivi allo scoppio del P2T furono per i lavoratori del petrolchimico un susseguirsi di speranze e delusioni. La ricostruzione del cracking era al centro di ogni rivendicazione e confronto sindacale. Le attività produttive erano riprese a regime ridotto, grazie alla messa in marcia di due vecchi impianti di cracking (P2X – P2R) e all’approvvigionamento via mare di etilene e propilene, stoccate in tre serbatoi criogenici. Direttore era diventato l’ing. Silvestro Zappaterra, in sostituzione dell’ing. Cerani, che occupava quella posizione nella tragica notte dell’8 dicembre 1977. Capo del personale era il dr. Paolo Montesi.
Tra il 1978 e il 1980 erano state messe in cassa integrazione straordinaria (CIGS) 700 persone. Il petrolchimico non era ormai più il più importante sbocco occupazionale per i giovani brindisini e fecondo terreno di raccomandazioni. Erano anni difficili per l’intero Paese. A Nord si susseguivano episodi di lotta armata e attentati dei gruppi extraparlamentari di sinistra e di destra. Il 29 gennaio 1980 era stato ucciso a Mestre dalle Brigate Rosse anche il vicedirettore del petrolchimico di Porto Marghera, l’ing. Sergio Gori, che anni prima aveva lavorato a Brindisi. A settembre ci fu a Torino il licenziamento di 24.000 lavoratori della Fiat. Il grande stabilimento di Mirafiori restò fermo per 35 giorni. I picchetti degli scioperanti furono rimossi solo dopo la marcia dei 40.000, organizzata dal Coordinamento dei Quadri e Capi Fiat (che determinò una svolta storica nelle relazioni industriali in tutta Italia).
Il 1981 non era iniziato in Montedison sotto migliori auspici. A gennaio Mario Schimberni, che aveva sostituito Medici alla presidenza, annunciò il licenziamento di 10.000 persone nell’intero Gruppo. Sintetizzò questo programma con l’espressione: “ tagliare i rami secchi”. Passarono poche settimane e l’ing. Zappaterra comunicò a Brindisi la fermata dei reparti di produzione P18A (policloruro di vinile), P12 (cloro-soda), P9A (polipropilene) e l’avvio di una procedura di licenziamento per 1040 persone. La risposta del sindacato fu immediata e durissima. Furono proclamati scioperi articolati e attuate clamorose azioni di protesta in città. Montedison continuava tuttavia a dichiarare di voler mandare avanti sia la fermata degli impianti sia la riduzione di personale. Sollecitato da più parti, intervenne il ministro delle Partecipazioni Statali Gianni De Michelis, che tentò una mediazione, garantendo a Montedison la presentazione, entro breve termine, del Piano Chimico Nazionale (che prevedeva agevolazioni economiche per le imprese, pari a 3000 miliardi di lire). Gli scioperi e le manifestazioni di protesta in città proseguirono tuttavia fino ad aprile. Pressata da più parti, e con il rischio del blocco del petrolchimico di Brindisi a tempo indeterminato, Montedison decise di sospendere la procedura di licenziamento. Il problema però era solo rinviato. Ad alimentare il clima di tensione contribuì anche il 6 luglio 1981 la notizia del ritrovamento del cadavere del direttore di Porto Marghera, ing. Giuseppe Tagliercio, sequestrato, torturato e barbaramente ucciso dalle Brigate Rosse.
Passarono pochi mesi, a novembre 1981 Montedison tornò alla carica. Il direttore Zappaterra comunicò la fermata degli impianti P2X, P4A e P4B e l’avvio della procedura di cassa integrazione ordinaria (CIG) per 240 dipendenti. Si sparse la voce che Montedison si apprestasse a fermare l’intero petrolchimico, dopo aver esaurito le scorte di materie prime. Gli scioperi ripresero durissimi. La rabbia dei lavoratori sfuggì al controllo delle strutture sindacali. La direzione decise di abbandonare l’elegante palazzina degli uffici per trasferirsi nella foresteria di stabilimento. Tutto il personale fu messo in “ ore improduttive “. Lo scontro era frontale. Furono richiamati alle armi i lavoratori da qualche tempo in CIGS, apparsi fino allora disinteressati rispetto alle ultime drammatiche vicende del petrochimico. Ancora una volta furono attuate in città durissime manifestazioni di protesta. Montedison continuava però a dichiarare: “Indietro non si torna“.
Aumentarono le pressioni dei sindacati e degli amministratori locali sul governo nazionale. Finalmente, il 29 dicembre 1981, dopo 55 giorni di durissime lotte, durante i quali il petrolchimico restò per lo più fermo e presidiato con le sole comandate di sicurezza, si giunse a un accordo, sottoscritto dal capo di governo, Giovanni Spadolini, dai ministri Di Giesi, De Michelis e Signorile, e dai segretari confederali CISL – CGIL – UIL, Carniti, Lama, e Benvenuto. Montedison s’impegnava a sospendere la procedura di cassa integrazione per 240 lavoratori e a rimettere in marcia i tre impianti, la cui fermata era stata all’origine del conflitto. Il governo, da parte sua, s’impegnava a organizzare un incontro tra i due grandi Gruppi chimici sul Piano Chimico Nazionale, per giungere a un accordo sulla ripartizione delle loro aree di primaria influenza.
Era stata una dura lotta senza precedenti, che aveva visto per la prima volta battersi fianco a fianco nella cattedrale operai, impiegati e quadri intermedi.
A gennaio 1982 fu sottoscritto presso l’associazione industriali di Brindisi anche un accordo, con il quale si stabiliva che i lavoratori dovevano farsi carico dei costi per i 55 giorni di sciopero, senza distinzioni di qualifica e livello professionale. Parte delle giornate furono in realtà coperte con le ferie residue e parte con la cassa integrazione ordinaria. A pagare più di tutti per la lunga fermata del petrolchimico furono i lavoratori della Cooperativa Labor, che a differenza delle altre imprese non poterono beneficiare della cassa integrazione ordinaria.
Nello stesso mese di gennaio cominciarono a circolare voci di un imminente accordo tra ENI e la società americana Occidental Petroleum (di proprietà del miliardario “rosso” Armand Hammer) per la costituzione di ENOXY e il passaggio a questa società di gran parte degli impianti Montedison. Ma per i lavoratori e i sindacati chimici brindisini doveva esserci un’altra spiacevole sorpresa: poiché l’accordo tra ENI e Montedison tardava, la direzione del petrolchimico, d’intesa con Foro Bonaparte, convocò il 15 febbraio la FULC provinciale presso l’Associazione Industriali e comunicò la fermata di quattro reparti di produzione e l’avvio di una procedura di licenziamento collettivo per 900 persone.
La FULC chiese con forza il rispetto dell’accordo sottoscritto il 29 dicembre 1981 alla presenza del presidente del consiglio dei ministri. Non bastò. Furono nuovamente proclamati scioperi articolati e attuate clamorose iniziative di protesta in città, con il blocco delle strade del centro cittadino, degli ingressi della Standa (di proprietà Montedison) e picchettaggi davanti alla sede provinciale della Banca di Italia e altri uffici pubblici. Fu organizzata anche un’assemblea “aperta”, alla quale furono invitati tutti parlamentari e i sindaci dei comuni della provincia. Il programma di lotta culminò con una massiccia partecipazione di 2000 lavoratori del petrolchimico alla manifestazione organizzata a Roma dalla FULC Nazionale per lo sciopero dell’intera categoria. Soltanto il 3 maggio 1982, dopo un incontro presso il ministero del lavoro, finalmente Montedison capitolò e accettò di ritirare la procedura per i 900 licenziamenti.
I problemi non erano ancora finiti. A ottobre iniziarono a manifestarsi i primi dissidi tra ENI e Occidental Petroleum La società americana non aveva alcuna intenzione di contribuire al pagamento degli impianti che sarebbero stati ceduti da Montedison a ENOXY. Proponeva di dare in cambio alcune centrali di carbone. Montedison chiedeva 900 miliardi di lire, l’ENI gliene voleva dare solo 300. Il commissario straordinario dell’ENI, Enrico Gandolfi, alla vigilia di lasciare l’incarico, era anche lui riluttante a firmare un accordo che considerava eccessivamente oneroso.
Il 15 novembre 1982 Montedison comunicò tuttavia alla FULC nazionale il numero totale di esuberi nei petrolchimici interessati all’accordo con ENOXY: 3300. A Brindisi sarebbero stati 1300 (oltre a quelli già in CIGS). Il 17 novembre 1982 fu pertanto avviata la procedura di cassa integrazione straordinaria. Salì nuovamente la tensione e ripartirono gli scioperi. Il 20 dicembre 1982, a complicare ulteriormente le cose, ci fu la definitiva rottura tra ENI e Occidental. Fu deciso, di conseguenza, che non sarebbe stata ENOXY a gestire gli impianti ceduti da Montedison ma RIVEDA, una società interamente controllata da ENI.
Il 2 gennaio 1983 ENI e Montedison raggiunsero finalmente l’accordo per il reciproco trasferimento d’impianti in tutti i petrolchimici. La pace chimica avrebbe permesso ai due grandi gruppi chimici nazionali di concentrare la propria presenza nei settori ove avevano già posizioni preminenti. ENI avrebbe acquisito la leadership del polietilene a bassa densità. Montedison avrebbe rafforzato la sua posizione nel polipropilene e nel polistirolo. L’ENI, che avrebbe dovuto versare a Montedison 433 miliardi, non intendeva tuttavia acquisire i suoi impianti, senza che la società di Foro Bonaparte li avesse prima “ ripuliti dei lavoratori eccedenti”.
Il 5 gennaio 1983, in un incontro al Ministero delle Partecipazioni Statali, al quale partecipò una delegazione della FULC brindisina, s’iniziò a discutere anche delle iniziative industriali per riassorbire le massicce eccedenze di personale. Fu chiaro sin dall’inizio che il principale riferimento sarebbe stata la nuova centrale termoelettrica ENEL. I sindacati dissero chiaramente che non avrebbe potuto risolvere tutti i problemi, e che per almeno quattro anni sarebbe stata un’opportunità di lavoro soltanto per le imprese impegnate nella costruzione. Il ministro De Michelis replicò che ci sarebbe stato molto altro ed elencò: il progetto “Canguro”, un’iniziativa nel settore aeronautico, 17 nuove aziende dell’indotto Montedison, che da sole avrebbero potuto riassorbire sino a 600 cassaintegrati, e infine 186 progetti della Cassa del Mezzogiorno, che avrebbero dato lavoro ad altre 1600 persone. Smontata la scatola di queste iniziative, i sindacati fecero tuttavia presente che a fronte di “teorici 3600 posti di lavoro” non c’era un solo progetto in fase di realizzazione e aggiunsero che nulla si era ancora detto riguardo agli investimenti e ai futuri assetti produttivi del petrolchimico di Brindisi. Montedison però insisteva per aprire immediatamente la trattativa sulle eccedenze di personale. Il sindacato rispose che i tempi non erano ancora maturi e che il confronto sugli esuberi doveva in ogni caso spostarsi a Brindisi.
Il rientro della delegazione brindisina, dopo due giorni di difficili trattative a Roma, non fugò le preoccupazioni dei lavoratori del petrolchimico. Anche ai quadri intermedi i progetti governativi apparivano fumosi e di dubbia realizzazione. L’assemblea generale dei lavoratori invitò tuttavia la delegazione sindacale a proseguire nelle trattative e non abbandonare il tavolo di confronto.
S’iniziarono a fare i primi conti realistici: se fossero uscite dallo stabilimento 2000 persone, come chiedeva Montedison (inclusi i lavoratori già in CIGS), 450 avrebbero maturato i requisiti per il pensionamento durante il periodo di CIGS, 150 potevano essere interessate a dimissioni incentivate. Restavano ancora 1300 esuberi da reimpiegare: 750 avrebbero potuto lavorare nella nuova centrale ENEL, 220 nell’indotto Montedison, 50 nel cosiddetto progetto aeronautico “Canguro”. A parte lo sbocco in ENEL, considerato eccessivamente ottimistico e comunque avanti nel tempo, il sindacato continuava a dire che le altre opportunità di reimpiego dei cassaintegrati erano “ più fumo che arrosto” e chiedeva a Montedison e al Governo, prima di sottoscrivere qualsiasi accordo, impegni più precisi, Restava poi ancora da definire la questione della ricostruzione del P2T, accantonata negli ultimi incontri ma considerata prioritaria. Senza la costruzione di un moderno cracking, il petrolchimico rischiava infatti di non marciare a lungo, qualunque fosse stata la proprietà.
Brindisi era a ogni modo diventato “il collo di bottiglia” dell’accordo globale che stava maturando tra ENI e Montedison per la ripartizione della chimica di base italiana. A questo punto entrarono nuovamente in gioco personaggi importanti: per il governo, i ministri Gianni De Michelis e Claudio Signorile; per Montedison, Cesare Vacciago, capo delle Relazioni Industriali; per i sindacati, i segretari nazionali di categoria e confederali; per la Regione Puglia il Presidente della Giunta, Nicola Quarta e l’assessore alla Programmazione, Salvatore Fitto.
Ci fu un’altra difficile tornata di trattative a Roma, che durò consecutivamente 48 ore. Il 26 gennaio 1983 si giunse a sottoscrivere la seguente ipotesi di accordo:
- Il petrolchimico di Brindisi sarebbe stato suddiviso in un Area Montepolimeri, comprendente gli impianti P9 B/ T; P8; P25/26; P21; P70; P12 A/ B e in un’Area Riveda, alla quale avrebbero fatto capo gli impianti: P2X/R; S13; P39/40; P4B; P9R; P33; P16, P17; P18B; P30B.
- Gli occupati sarebbero stati complessivamente 2400 (100 in più delle prime ipotesi): 600 sarebbero rimasti in Montepolimeri; 1800 sarebbero invece passati in Riveda.
- I lavoratori in CIGS sarebbero stati inseriti in corsi di riqualificazione finanziati dalla FSE e avrebbero ricevuto il 100% della retribuzione percepita prima della collocazione in CIGS. A essi Montedison avrebbe assicurato la riassunzione, qualora non avessero trovato, entro 30 mesi, nuovo impiego in una delle iniziative industriali indicate dall’accordo.
- La ricostruzione del P2T sarebbe stata inserita nel piano chimico nazionale. I lavori sarebbero partiti nel 1987, per concludersi entro il 1990.
La cassa integrazione straordinaria doveva partire improrogabilmente lunedì 31 gennaio 1983. Su questo punto, il ministro De Michelis e i dirigenti della Montedison erano stati categorici: in caso di mancato accordo, l’intero petrolchimico di Brindisi rischiava la chiusura . Le altre fabbriche (Marghera, Ferrara, Priolo) non sarebbero certamente venute in aiuto: avevano già approvato i loro accordi e dall’eventuale chiusura di Brindisi avrebbero avuto solo da guadagnare.
Fu convocata immediatamente l’assemblea generale per sottoporre ai lavoratori l’ipotesi di accordo. Il sindacato si presentò compatto e ai massimi livelli di rappresentanza. Per la FULC Nazionale c’erano tre segretari, Conferrati, Coldagelli, Mariani; per la federazione regionale CISL, CGIL, UIL erano presenti D’Antoni, Dipietrangelo. Al completo erano anche schierate le segreterie provinciali confederali, quelle di categoria, e il Consiglio di Fabbrica.
La relazione introduttiva fu svolta da Saverio Caramia, segretario provinciale della UIL, a nome della delegazione brindisina che aveva partecipato all’ultima fase delle trattative romane. Ci tenne a sottolineare in premessa che la responsabilità di firmare l’accordo spettava al sindacato nazionale, poiché gli assetti produttivi e occupazionali di Brindisi rientravano nella più ampia trattativa per la riorganizzazione della chimica in Italia. Il dibattito fu lungo e acceso. Alla fine, dopo numerosi interventi e momenti di forte tensione, l’assemblea dichiarò di essere pronta ad approvare l’ipotesi di accordo, a condizione che il testo fosse integrato con i seguenti irrinunciabili quattro punti:1) doveva esserci contestualità tra la collocazione in CIGS dei lavoratori e l’avvio dei corsi di riqualificazione;2) in caso di futuro turn-over le posizioni dovevano essere immediatamente ricoperte, in modo da mantenere inalterato il totale di 2400 dipendenti, riassorbendo lavoratori dalla CIGS; 3) compatibilmente con le esigenze tecniche, doveva esserci rotazione del personale in CIGS; 4) Montedison (alla quale i lavoratori in CIGS avrebbero continuato amministrativamente ad appartenere) doveva anticipare mensilmente le indennità di CIGS e le altre integrazioni salariali per garantire il 100% della retribuzione precedentemente maturata.
Una ristretta delegazione sindacale ebbe un incontro con i dirigenti Montedison, che erano in ansiosa attesa nella palazzina della direzione; dopo qualche ora riuscì ad ottenere il sostanziale accoglimento delle quattro richieste. La nuova ipotesi di accordo fu presentata all’assemblea che la ratificò, sottolineando il suo consenso quasi unanime con un lungo applauso.
Io non partecipai all’assemblea. Avevo espresso perplessità in seno all’Associazione Quadri ( di cui ero vicepresidente ) sull’ipotesi di accordo che stava maturando e preferii rimanere nel Centro di Formazione, convinto tuttavia che l’accordo sarebbe stato ratificato. Fui sorpreso quando, un’ora dopo la chiusura dell’assemblea, mi convocarono in direzione. Pensavo di ricevere un ammonimento per le mie prese di posizione in seno all’Associazione Quadri ma mi rattristava ancor di più l’idea che tra i 1600 lavoratori da collocare in CIGS ci sarebbero stati tutti i miei collaboratori.
Nel corso degli ultimi anni il Centro di Formazione di Brindisi era diventato il più qualificato e meglio attrezzato dell’intero Gruppo Montedison. Organizzavamo corsi di alta qualificazione per meccanici provenienti da tutti gli stabilimenti. Avevamo anche messo a punto una innovativa metodologia di formazione per i teams che gestivano gli impianti di produzione: non più lezioni teoriche svolte in aula per gruppi orizzontali di persone che ricoprivano gli stessi ruoli su impianti differenti (es. assistenti tecnici, quadristi, operatori di impianto ) ma analisi dei processi svolte direttamente sugli impianti, per i gruppi reali-verticali che li gestivano (caporeparto-tecnologo-assistente-quadrista-operatore). I nostri formatori agivano da metodologi. Erano questi gruppi reali che, con un approccio logico-induttivo, ricostruivano il processo produttivo e le sue principali varianze, in termini di segnali, cause, conseguenze, azioni correttive. Dal basso verso l’alto venivano così trasferite esperienze e abilità operative e dall’alto verso il basso concettualizzazioni dei fenomeni e dei processi di trasformazione. Questo tipo di formazione, oltre a richiedere minor tempo, poteva essere realizzata con gli impianti in marcia e rinforzava/sviluppava le competenze necessarie per gestire in modo ottimale i processi chimici (continui e fortemente integrati). Con la ristrutturazione del petrolchimico il Centro di Formazione sarebbe stato chiuso, smantellato. Queste esperienze e competenze sarebbero andate perdute. Pensavo a ciò recandomi in auto dalla Polymer verso la direzione.
Ad attendermi c’erano Cesare Vaciago, diretto collaboratore di Mario Schimberni, il direttore e il capo del personale del petrolchimico. Senza troppi preamboli, Vaciago mi chiese se avessi letto il testo dell’accordo. Risposi di sì. Domandò poi se ero consapevole che ci sarebbe stato tanto lavoro per me. Mostrai sorpresa e obiettai che, per quanto ne sapessi, il centro di formazione sarebbe stato chiuso e tutto il personale collocato in CIGS. Sorridendo Vaciago replicò che evidentemente non avevo letto bene l’accordo, in particolare dove si diceva che lunedì 31 gennaio, contestualmente alla messa in CIGS, i 1600 lavoratori avrebbero iniziato corsi di riqualificazione. Feci presente che l’accordo prevedeva che fosse la Regione Puglia a organizzarli. Sorrisero tutti. Ma ancora una volta fu solo Vaciago a parlare: “ La Regione Puglia non sarà in grado di organizzare i corsi neppure fra sei mesi, e se lunedì i corsi non partiranno il petrolchimico sarà nuovamente in tumulto“. Insistetti : “ Tutti i miei collaboratori sono nella lista dei cassaintegrati..”. “ Li riavrà tutti!” ,disse Vaciago. Ed io: “Non basteranno per avviare corsi per 1600 persone…”. Non mi lasciò finire: “Scelga altri collaboratori tra i tecnici cassaintegrati, ne prenda quanti gliene servono .”. Di poco rincuorato, mormorai : “ma di qui a lunedì ci sono solo tre giorni… “. Vaciago, con tono sbrigativo e impaziente soggiunse: “ …e tre notti!”. Poi, guardando il direttore e il capo del personale, concluse : “ mi hanno detto che lei ce la può fare …”. Loro annuirono .
Tornai in ufficio con il cuore in tumulto. Convocai i miei collaboratori (che erano rimasti tutti in attesa di notizie). Raccontai quanto accaduto. Dissi che avevo dato la mia disponibilità ma solo con il massimo impegno di tutti potevamo farcela. Mi confermarono che quello ci sarebbe stato, oltre ogni limite. Iniziammo a lavorare e proseguimmo fino a notte fonda.
Elaborammo un programma di incontri con gruppi omogenei di lavoratori in CIGS. Li definimmo “ di orientamento e verifica delle motivazioni individuali rispetto alle potenziali aree di riconversione professionale e di reinserimento al lavoro”. I primi incontri sarebbero partiti lunedì 31 gennaio 1983. La completa realizzazione di questa fase di orientamento avrebbe preso almeno un mese. Avremmo avuto così tempo per progettare corsi di formazione di base. Sarebbero stati part-time e ci avrebbero dato altro tempo per organizzare con la Regione Puglia i corsi di formazione specialistica e per distribuire l’enorme massa di lavoratori cassaintegrati su più centri di formazione. Il nostro Centro di Formazione avrebbe gestito gran parte dei corsi specialistici e mantenuto il coordinamento generale dei programmi formativi, in stretto collegamento con il Team Montedison costituito ad hoc per monitorare i progetti di reindustrializzazione. Presentai le linee guida di questo programma alla direzione di stabilimento e al sindacato, che le approvarono.
Alla soglia dei 40 anni, stavo per affrontare, tra le mura della “cattedrale”, l’avventura più difficile, intensa e disperata della mia storia professionale …
Giuseppe Antonelli (VIII puntata – continua)
Puntuale e precisa la ricostruzione. La cosa però che mi ha colpito di più è stato il suo “cuore in tumulto” segno di grande responsabilità ed etica professionale. Cose rare di questi tempi nei giovani manager.
Un caro saluto. Paolo
Mino, il 31 gennaio 1983 furono messi in cassa integrazione straordinaria 1600 lavoratori chimici, di fatto furono licenziati. Un accordo firmato ai massimi livelli sindacali e governativi garantiva loro nuove opportunità di lavoro. Fu un puro inganno. Sono trascorsi oltre trenta anni e forse di quella triste vicenda non era rimasta neppure la memoria, per questo ho deciso di raccontarla ….
Gran bella storia (si fa per dire). La perdita del lavoro, una tra le scisagure da cui è difficilissimo riprendersi oggigiorno come allora