
BRINDISI- Cosa resta di un uomo quando gli tolgono tutto? Un nome, un numero. Un corpo, un gesto. Una vasca d’acqua gelida nel cuore di Auschwitz. Domenica 13 aprile alle ore 18.30, al Nuovo Teatro Verdi di Brindisi, Raoul Bova è Alfred Nakache in “Il Nuotatore di Auschwitz”, diretto da Luca De Bei: più che uno spettacolo, un’immersione profonda in una storia che scorre sotto la pelle.
Per questa occasione, il teatro propone una promozione speciale con un biglietto al prezzo ridotto di 12 euro, valido per i posti di secondo settore di platea. L’offerta è attiva esclusivamente presso la biglietteria del teatro, aperta venerdì dalle 11 alle 13 e dalle 16.30 alle 18.30 e, il giorno dello spettacolo, dalle 11 alle 13 e dalle 17 fino all’inizio della recita. Info T. 0831 562554.
La scena racconta e intanto resiste. Respira. Lotta. Come fece lui, bracciata dopo bracciata, per restare umano là dove l’umano era stato cancellato. È una storia di sport, sopravvivenza, tenacia. Ma è anche molto di più. È una riflessione sul senso dell’identità, della memoria, della dignità. È la storia di un uomo che ha trovato nell’acqua la sua casa, la sua lingua, il suo modo di stare al mondo. E che in quell’elemento ha continuato a esistere anche quando tutto il resto era stato cancellato.
Alfred Nakache era un atleta straordinario, un nuotatore francese di origine ebraica che aveva infranto record mondiali, portato in alto la sua bandiera, onorato il suo talento con disciplina e passione. Ma nel 1943, l’Europa era diventata una trappola e la sua identità non valeva più nulla: né il suo nome, né la sua fama, né le sue vittorie. Solo un numero, 172763, inciso sulla pelle. Solo il corpo, trasformato in bersaglio. Solo il silenzio, interrotto dal rumore dei treni, delle urla, dei comandi. Deportato ad Auschwitz, Nakache vide tutto svanire: la moglie, la figlia, la casa, il passato. Ma dentro di sé custodiva ancora qualcosa: il desiderio di nuotare.
L’acqua, che per lui era sempre stata aria, ritmo, espressione, dentro il lager diventò rifugio. Si tuffava di nascosto nel bacino del campo, tra acque torbide e gelide, e lì, per pochi attimi, ritrovava se stesso. Non nuotava per allenarsi. Nuotava per ricordare chi fosse. Nuotava per non cedere. Nuotava per restare umano. E poi, l’impensabile: Nakache sopravvive. Sopravvive al campo, alla fame, al freddo, al lutto. E una volta libero, risale. Letteralmente. Torna a nuotare. Gareggia. Vince. Partecipa alle Olimpiadi di Londra. Non perché vuole dimenticare ma perché vuole affermare, bracciata dopo bracciata, che la vita può rinascere. Che il corpo, anche dopo essere stato umiliato, può ancora parlare. Può ancora dare testimonianza.
In scena, accanto a lui – o meglio, nel suo stesso riflesso – c’è Viktor Emil Frankl. Lo psichiatra austriaco che visse la stessa prigionia, che condivise lo stesso fango e lo stesso gelo e che tornò nel mondo con una convinzione: l’essere umano è capace di sopportare qualsiasi cosa purché trovi un senso. Frankl elaborò la logoterapia, una teoria che unisce la psicologia al significato esistenziale. Per lui, la salvezza non stava nell’ottimismo ingenuo ma nella volontà di senso. Anche nell’abisso, si può scegliere di reagire.
Lo spettacolo mette in relazione questi due destini, apparentemente distanti: l’atleta e lo psichiatra, il gesto fisico e il pensiero. E invece, scena dopo scena, si scopre che sono uno il contrappunto dell’altro. Entrambi hanno scelto di restare vivi. Entrambi hanno trovato, ciascuno a modo proprio, una forma di resistenza. Nakache con il corpo, Frankl con la mente. Uno nuota, l’altro scrive. Uno si immerge nell’acqua, l’altro si immerge nella coscienza. Due linguaggi per dire la stessa cosa: io esisto ancora.
“Il Nuotatore di Auschwitz” è più che uno spettacolo sulla memoria: è un’opera civile, un grido mormorato, un invito a interrogarsi sul presente. Cosa significa oggi “resistere”? In un tempo che corre, che dimentica in fretta, che trasforma tutto in consumo e superficie, c’è ancora bisogno di storie così. Di storie che non si dimenticano. Che non si lasciano archiviare. Perché Nakache non ha nuotato solo per sopravvivere. Ha nuotato per ricordare. Per essere testimone. Frankl non ha scritto per autoassolversi, ma per offrire una bussola. Entrambi ci hanno lasciato in eredità una forma di orientamento: il corpo come memoria, la parola come cura. Lo spettatore non è chiamato a commuoversi ma a farsi carico. A uscire con quella storia addosso. A portarla fuori. Perché non si tratta solo di memoria. Si tratta di resistenza. Di dignità. Di senso. E dell’urgenza di ricordare che, anche quando tutto sembra perduto, c’è sempre un gesto che può restituire la vita. Una bracciata. Un pensiero. Una voce che racconta. E qualcuno, là fuori, pronto ad ascoltare.
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