LA STORIA- Iniziai a lavorare in Himont nel giugno 1986. Lo stabilimento di Brindisi era rimasto per lungo tempo senza capo del personale. Riceveva un service amministrativo da Montedipe e di tanto in tanto supporto dal capo del personale Himont di Terni. Era stato proprio lui, il dr. Risuglia, a segnalare il mio nominativo alla direzione centrale. Avevo competenza in sicurezza, selezione, formazione, meno in altre tecniche di direzione personale: amministrazione, sistemi retributivi, contrattualistica. Chiesi pertanto di partecipare a un paio di corsi specialistici e feci trasferire da Montedipe Vincenzo Stigliano, un ottimo impiegato di amministrazione. Nello stabilimento di Brindisi erano stati da poco tempo impiegati con successo i catalizzatori ad alta resa e il processo Spheripol per la produzione del polipropilene, messi a punto nel centro ricerche di Ferrara. Negli anni successivi sarebbero stati esportati dai tecnici e manager di Brindisi (Antonio Gala, Emanuele Azzarello, Enzo Rucco) in tutto il mondo. Il direttore, ing. Francesco Franich, era restio a impegolarsi con questioni sindacali o in relazioni esterne, anche se nell’autunno 1984 era stato costretto ad affrontare, praticamente da solo, le gravi tensioni che seguirono la decisione Himont di chiudere il reparto P9T (autogestione dell’impianto e altro). Mi aveva dato massima delega a operare in entrambi i versanti. Penso non se ne sia pentito.
Per l’inaugurazione dei nuovi uffici di direzione venne a Brindisi il presidente di Himont, l’ing. Giuseppe Lesca. Gli presentammo i nostri migliori risultati. Mentre parlavamo, notammo però che sorrideva e non sembrava del tutto convinto. Gli chiedemmo alla fine cosa pensasse dello stabilimento. La sua risposta sorprese tutti: “ Avete fatto notevoli progressi ma non bastano, perché Brindisi è costretto a competere con altri stabilimenti, in Italia e nel mondo, come i pigmei con i vatussi. Ha gambe corte ma il traguardo è posto per tutti alla stessa distanza. Dovete quindi correre di più, molto più degli altri per arrivare. Le vostre gambe corte – proseguì Lesca – sono le maggiori lentezze burocratiche in questo territorio, la mancanza di servizi, i fenomeni diffusi d’illegalità… “. Avrei ricordato le parole dell’ing. Lesca in altre aziende, quando qualche collaboratore mostrava eccessiva soddisfazione per modesti risultati raggiunti.
Nella primavera 1986 ci fu per il petrolchimico un evento importante: Enichem e ICI costituirono una jointventure europea nel settore dei prodotti vinilici, nacque così EVC (European Vinyls Corporation). Franco Reviglio, presidente dell’ENI, disse che era un gran passo avanti nel processo di ammodernamento della chimica europea. Furono traferiti a EVC, insieme agli impianti di Marghera, Ravenna, Porto Torres, quelli di Brindisi per la produzione del cloruro di vinile monomero e del policloruro di vinile, con 160 dipendenti.
Nello stesso periodo ci fu in città un altro e più clamoroso avvenimento. Il 20 agosto, il sindaco Ortese sospese, con ordinanza, i lavori di costruzione della centrale ENEL di Cerano. Le imprese appaltatrici furono costrette a mettere in libertà 2000 persone, che si riversarono dopo qualche giorno in tumulto nel palazzo comunale. I movimenti ambientalistici plaudirono invece la decisione del sindaco, da lungo tempo sollecitata.
Giorgio Nebbia, noto ambientalista e ordinario di merceologia nella facoltà di economia dell’Università di Bari, commentò anche lui positivamente il provvedimento: “Se la centrale di Cerano fosse costruita secondo il progetto attuale immetterebbe nell’atmosfera una quantità inaccettabile di composti acidi (anidride solforosa, ossido di azoto) e di metalli tossici e radioattivi; non esiste poi alcun piano per lo smaltimento delle ceneri (700 mila tonnellate anno; i pontili per lo scarico e i nastri trasportatori del carbone avrebbero effetti devastanti sulle coste; i depositi di carbone, decine di ettari coperti da mucchi ..”.
I lavoratori delle imprese continuavano però a protestare violentemente; arrivarono a bloccare per molte ore le principali strade di accesso alla città e alla zona industriale. Il ministro dell’industria, Valerio Zanone, convocò a Roma il presidente della regione Puglia, Salvatore Fitto, e il sindaco Ortese. Un accordo fu raggiunto il 9 settembre. L’ordinanza del sindaco fu sospesa e ENEL fu autorizzata a eseguire i lavori, che non avessero però “niente a che vedere con l’impatto ambientale, in attesa che un’apposita commissione sciogliesse, entro novanta giorni, i nodi riguardanti i meccanismi e sistemi di tutela dell’ambiente e della salute”. Ortese chiese inoltre, ed ottenne, che la cassa integrazione coprisse l’intero periodo d’interruzione dei lavori e le imprese integrassero il restante 20%, a copertura totale delle retribuzioni perdute. Il 16 settembre i cancelli del cantiere di Cerano furono riaperti.
Himont continuava a mietere brillanti risultati a livello internazionale, che le consentirono la quotazione nella borsa di New York. Destò perciò scalpore la decisione di Hercules di cedere nel 1987 il proprio 50% di proprietà a Montedison, che assunse così il pieno controllo della società e lo mantenne fino al 1995, quando costituì una nuova jointventure con Shell dando vita a Montell. Nel 1997, però, a causa della crisi finanziaria del Gruppo Feruzzi, decise di vendere le sue partecipazioni in Himont, che a seguito della costituzione di una nuova jointventure tra Shell e Basf diventò Basell. Finirono così anche 100 anni di storia della ricerca italiana nei polimeri, culminata con l’attribuzione del premio Nobel allo scopritore del polipropilene, prof. Giulio Natta.
Agli inizi del 1989 mi resi conto che non sarei potuto rimanere ancora a lungo in Himont. Mi avevano offerto, ed avevo rifiutato, il trasferimento a Milano, ma restare a Brindisi significava rinunciare a ulteriori opportunità di crescita professionale. Venni a sapere che Mobil Plastics cercava un direttore del personale per sostituire il dr. Antonio Ciccolella in procinto di andare in pensione. Era la società leader mondiale nella produzione di films di polipropilene, largamente impiegati per l’imballaggio flessibile di prodotti alimentari, tabacchi, profumi, ecc. Mi candidai e feci un colloquio riservato presso l’Associazione Industriali. I dirigenti Mobil Plastics sembravano soddisfatti. Mi dissero però che dovevo fare un secondo colloquio presso il loro quartier generale in Lussemburgo, e sarebbe stato in inglese. Per l’inglese, nonostante alcuni corsi, ero negato. Pensai addirittura di rinunciare, poi chiesi consiglio al mio insegnante della British School. Mi mostrò uno schema recruitment interview normalmente utilizzato nelle società americane. Ci esercitammo su quello per un intero pomeriggio. Consigliò anche di portare con me alcune foto, che mi ritraevano all’opera in precedenti ruoli professionali. Disse che sarebbero state più efficaci del mio poor english. In Lussemburgo incontrai il presidente della società, Bob Dobies, e feci colloqui con altri top manager. Mi assunsero .
Comunicai la decisione di dimettermi all’ing. Franich e al direttore del personale Himont, dr. Lanati. Furono entrambi sorpresi e rammaricati. Intervenne anche l’ing. Silvano Bigi, potente vice-president e capo del global engineering . Mi offrì le stesse condizioni di Mobil Plastics per rimanere. Sapevo che avrebbe incontrato a Milano una forte opposizione da parte del direttore del personale, che non voleva creare precedenti (la dirigenza non era prevista in Himont per i capi del personale di stabilimento). Avevo in tasca, già firmata, la lettera di assunzione. Ringraziai l’ing. Bigi per l’apprezzamento ma rifiutai. L’1 giugno 1989, esattamente dopo 20 anni, lasciavo definitivamente il petrolchimico.
Mobil Plastics (che non avevo mai visitato), mi apparve subito un altro mondo: lo stabilimento era piccolo, con meno di 200 dipendenti, pochi se li confrontavo con i 1600 cassaintegrati che avevo gestito per oltre tre anni in Montedipe o con i 5100 lavoratori del petrolchimico ai tempi d’oro. Percepii anche un’eccessiva contrapposizione tra le attese del personale e quelle del management. Gestirla fu all’inizio difficile. I direttori di stabilimento che si erano avvicendati nel tempo, condizionati forse dalla politica aziendale orientata al breve termine, avevano speso il necessario per far marciare le linee di produzione, quasi nulla per migliorare le strutture civili e i servizi sociali (capannoni, portineria, uffici, mensa, spogliatoi). Non avevano soprattutto innescato e sostenuto nel tempo processi di cambiamento della cultura aziendale, caratterizzata da conflittualità sindacale, alti indici di assenteismo, appiattimento professionale. Ero perplesso e preoccupato ma indietro non potevo tornare. Con il passare dei mesi mi resi tuttavia conto che con una gestione più coraggiosa e coerente delle risorse umane si potevano liberare e sviluppare anche in Mobil Plastics competenze, entusiasmi ed energie. Raccontare come ciò avvenne non è l’oggetto primario di questa storia, che volge al termine, e alla quale è bene tornare .
Nell’aprile 1990 ci fu l’ avvenimento da tanto tempo atteso nel petrolchimico: iniziarono i lavori di costruzione del nuovo steam cracker. Sarebbero dovuti andare avanti per tutto il 1991, con l’impiego di oltre mille persone tra edili e metalmeccanici. Quell’impianto, per il quale avevano lottato 14 lunghi anni migliaia di lavoratori chimici e i loro sindacati, avrebbe reso nuovamente competitivo il petrolchimico di Brindisi. I lavori durarono più a lungo del previsto e terminarono nel maggio 1993. Il nuovo steam cracker era in grado di produrre ogni anno 400.000 tonnellate di etilene e 200.000 di propilene, indispensabili per alimentare gli impianti di polimerizzazione a valle. Il costo complessivo fu di 550 miliardi di lire, incluse le infrastrutture. L’assegnazione dei lavori a TPL fu oggetto d’indagini al tempo di “mani pulite “, che ebbero comunque come filone principale le tangenti pagate per la costituzione di Enimont e provocarono nel luglio 1993, a distanza di pochi giorni, il suicidio in carcere del presidente dell’ENI, Gabriele Cagliari e di Raul Gardini, capo del Gruppo Ferruzzi, nel suo Palazzo Belgioioso a Milano.
In quegli stessi anni ci fu un evento che resterà nella storia di Brindisi. Nella notte del 7 marzo 1991 sbarcarono 27.000 profughi in fuga dall’Albania. La città si ritrovò a fronteggiare un’eccezionale emergenza umanitaria. Nel porto c’erano decine le piccole navi gremite di migranti. Per settimane essi furono generosamente accolti e assistiti: nelle case, nelle chiese, nelle fabbriche, nelle scuole. Seguirono nei mesi e negli anni successivi molti altri sbarchi, non solo di profughi e clandestini, anche di sigarette, armi e droga, che alimentarono i traffici delle cosche criminali (fino alla “Operazione Primavera” che nel febbraio 2000 pose fine al dominio del contrabbando in città).
Un tragico evento, qualche anno più tardi, rischiò di offuscare quella storia di straordinaria generosità ed umanità della popolazione brindisina: la Kater I Rades, una motovedetta albanese carica di circa 120 profughi, fu speronata il 28 marzo 1997 nel canale d’Otranto dalla corvetta Sibilla della Marina Militare Italiana, che contrastava il tentativo di approdo sulla costa italiana. Nel conseguente affondamento perirono 81 persone di cui si riuscirono a recuperare i corpi.. Si stima che di altre 27 persone non siano mai stati ritrovati. I superstiti sbarcati nel porto di Brindisi furono 34.
Nel petrolchimico, dopo l’avviamento del moderno steam cracking, tornò il tempo delle crisi. Nel febbraio 1998 EVC comunicò di voler chiudere, entro ventiquattro mesi, gli impianti di Brindisi. Disse che lo faceva a causa degli “svantaggi logistici “. Nello stesso comunicato, Ettore dell’Isola, presidente della jointventure italo-inglese, dichiarò che sarebbe stata consolidata la produzione di PVC nello stabilimento di Porto Marghera. Questa seconda notizia non attenuò però la rabbia dei lavoratori e dei sindacati di Brindisi. La chiusura, come preannunciato, avvenne nel dicembre 2000, 160 dipendenti furono licenziati. L’area ex EVC fu in seguito ceduta a Celtica Ambiente, che stipulò un accordo con il ministero delle attività produttive per la riconversione dello stabilimento e presentò un progetto per lo smaltimento di rifiuti (torcia al plasma). S’impegnò anche a eseguire la bonifica del sito e riassumere gli ex-dipendenti EVC. Per vari motivi, che sarebbe troppo lungo ricordare, questa iniziativa non fu mai attuata.
I problemi non erano finiti. A febbraio 2001 Enichem stipulò un contratto per la cessione dell’intera divisione poliuretani alla Dow Chemical e per il contemporaneo acquisto del 50% della Polimeri Europa da Union Carbide (controllata dalla stessa Dow Chemical). Trascorse appena un anno e nel febbraio 2002 Dow Chemical annunciò di voler fermare l’impianto di Brindisi (MDI). La motivazione fu: “because of difficult global economic conditions”. La decisione Dow si concretizzò nel dicembre 2002, dopo il fallimento delle trattative per la cessione dell’impianto alla società pugliese Chimica D’Agostino, protrattesi per otto mesi, Furono di conseguenza avviate le procedure di licenziamento per 126 persone. I lavoratori Dow occuparono gli uffici della direzione, bloccarono la porta carraia del petrolchimico, diedero vita ad altre clamorose iniziative, ma l’MDI non fu più ravviato.
Iniziò per gli ex dipendenti di EVC e Dow una lunga sequenza di manifestazioni e pressioni sugli amministratori locali, sui politici e sui sindacati per ottenere un posto di lavoro. Si mosse con maggiore determinazione l’Amministrazione Provinciale, che il 17 dicembre 2003 sottoscrisse, insieme al comune e alla regione, un accordo con il governo nazionale. Prevedeva il reimpiego di quei lavoratori in tre iniziative imprenditoriali: 1) Telcom, che con un investimento di 21 milioni di euro assicurava l’occupazione di 80/100 unità; 2) Europlastic, che con due investimenti di 12 e 7,5 milioni prevedeva l’occupazione di 30/35 unità; 3) QBell Tecnology, che con un investimento di 11 milioni s’impegnava a occupare 50/60 unità. Non ho approfondito come siano andate realmente le cose, certo è che, a oltre 10 anni di distanza da quell’accordo governativo, decine di lavoratori EVC e Dow sono ancora senza lavoro.
Agli inizi degli anni 2000, i problemi del petrolchimico lasciarono spazio a una vicenda che andò avanti per lungo tempo, occupando oltre alle cronache locali anche le cronache nazionali: quella di British Gas. Nel gennaio 2003, con decreto dell’allora governo Berlusconi, era stata rilasciata l’autorizzazione per la costruzione nel porto di Brindisi, in zona Punto Franco, di un impianto di rigassificazione della società britannica. BG aveva poi avviato, nel gennaio 2008, la procedura di valutazione dell’impatto ambientale, conclusasi positivamente nel luglio 2010, con decreto del ministro dell’ambiente. Fin dal 2005 si era però manifestata una forte opposizione all’insediamento del rigassificatore, sia da parte delle amministrazioni locali (Provincia, Comune, Regione) che da parte delle associazioni ambientalistiche. Fu per lungo tempo un susseguirsi di accuse e polemiche. La Procura della Repubblica avviò indagini, che nel febbraio 2007 portarono agli arresti del presidente di British Gas Italia, Franco Fassio, del sindaco Giovanni Antonino, e dell’agente marittimo Luca Scagliarini, questi ultimi accusati di aver ricevuto denaro in cambio del rilascio dei permessi. Come è finita la vicenda è noto: il 6 marzo 2012, dopo undici anni, British Gas rinunciò definitivamente alla costruzione del rigassificatore. A darne comunicazione fu l’amministratore delegato per l’Italia: “British Gas se ne va – disse Luca Manzella – per la troppa burocrazia. Non si può pensare che una grande multinazionale blocchi un progetto di 800 milioni di euro per oltre undici anni.”.
Nel febbraio 2014 arrivò per me il momento della pensione. Avevo trascorso quasi tutta la mia vita lavorativa nell’industria chimica brindisina. Gli ultimi 15 anni in Mobil Plastics, prima come capo del personale poi come direttore di stabilimento. Superando alcune iniziali fasi di contrapposizione, eravamo riusciti, tutti insieme, direzione, lavoratori e RSU, a dimostrare che i pigmei potevano competere e vincere contro i watussi. Bisognava solo far crescere la fiducia, sviluppare entusiasmo e voglia di competere. Fu per me una grande soddisfazione essere presentato dall’ing. Carlo Ranucci, presidente ExxonMobil Chemical Films Europe, a Berlino, nel dicembre 1999, come direttore dello stabilimento nel quale sarebbe stata costruita la più grande linea di estrusione films di polipropilene al mondo.
Approdato alla pensione, pensavo di riposare. Lo feci per un po’, fino a quando Carlo Ranucci, che aveva lasciato ExxonMobil Chemical ed era diventato amministratore delegato di Treofan Group (altro gruppo multinazionale, leader nel mercato mondiale BOPP, con stabilimenti in Italia, in Germania, in Messico e in Sud Africa) mi chiese di collaborare. Accettai con entusiasmo e dal 2006 al 2011 lavorai in Treofan Italy, prima come consulente poi come direttore del personale. Mi avevano preceduto n passato nella sede di Terni, quando lo stabilimento era ancora Moplefan e faceva parte di Montedison alcuni ex-direttori e colleghi di Brindisi: Dario Amodio, Gennaro Esposito, Rocco Spinelli, Antonio Ronca, Barbato Limatola.. A Terni incontrai anche ex-colleghi e collaboratori di Mobil Plastics, attratti come me in tempi più recenti da Carlo Ranucci.
Rientrando a Brindisi ogni fine settimana mi capitava di sorvolare il petrolchimico e osservare uno scenario desolante. Dove una volta c’erano grandi impianti di produzione, erano rimaste vaste zone scure, che neppure l’erba spontanea riusciva più a colonizzare. Andando con il pensiero indietro nel tempo rivedevo, come in una sequenza fotografica, la folla festante il giorno della posa della prima pietra, il progredire dei lavori, la grande mensa aziendale con migliaia di lavoratori riuniti in assemblea; poi i bagliori di un tragico incendio, le macerie annerite, la divisione della fabbrica, i cancelli delle portinerie presidiati, la delusione e la rabbia dei cassaintegrati. Decisi di raccontare tutto questo. Non doveva essere la storia del petrolchimico, sarebbe stata troppo lunga e complessa, ma solo la memoria degli avvenimenti, dei tormenti e delle passioni che avevo condiviso con tanti di compagni di lavoro. Sarei partito dal lontano 8 marzo 1959 e dal discorso di Antonio Segni, presidente del consiglio dei ministri, che a un certo punto, rivolto proprio a noi ragazzi iscritti al primo anno dell’Istituto G. Giorgi, aveva detto: “ … e voi, giovani dell’industriale, sarete protagonisti in questa grande fabbrica, che darà lavoro a tante persone. In essa si produrrà una materia nuova, la plastica, che cambierà la vita di tutti noi…“.
Quanto si è avverato di quella profezia? Lascio ad altri l’onere di riflettere e rispondere. Sento, però, di poter affermare che nel petrolchimico, per oltre 50 anni, migliaia di persone hanno lavorato con passione, con intelligenza, traendo risorse necessarie per mantenere le proprie famiglie, per far studiare i propri figli. Ingenti capitali sono stati riversati nella città. La cultura imprenditoriale ha trovato nuovi stimoli e opportunità. Il deserto non è scomparso intorno alla cattedrale, anzi è penetrato in essa e finirà per sommergerla, se mancherà la voglia e l’intelligenza di reinventare il futuro di quella grande fabbrica.
La chimica non è finita in Italia, neppure a Brindisi. Nel petrolchimico continuano a operare cinque aziende, si producono quasi un milione di tonnellate di materie plastiche, vi lavorano, tra diretti e indiretti, mille persone. La chimica è una voce tra le più importanti delle nostre esportazioni. Senza la chimica l’Italia non sarebbe il settimo Paese industrializzato al mondo. Non ci sono più i grandi gruppi chimici, esiste, però una miriade di piccole-medie aziende che fanno ricerca, innovano, competono. I giovani credono nella chimica, se è vero che l’accesso a questa facoltà d’ingegneria è diventato oltremodo selettivo per l’elevato numero di candidati. La ricerca di nuovi materiali, in particolare nel settore delle plastiche bio-degradabili e dei bio-combustibili, vede l’Italia primeggiare. Dopo i grandi disastri del passato (Seveso, Manfredonia, Cengio, ecc.), che hanno giustificato la crescita dei movimenti ambientalistici, la chimica ha fatto notevoli passi avanti, in termini d’innovazione dei sistemi di sicurezza e di protezione ambientale. Evidenze di questo progresso sono le forti contrazioni degli infortuni, delle malattie professionali, le riduzioni delle emissioni nocive in aria e in acqua.
Anche dove gli insediamenti chimici cessano di operare o sono ridimensionati, non può e non deve subentrare il deserto. Bisogna far tesoro delle migliori esperienze di bonifica e riconversione industriale fatte in altri paesi. Basterebbe guardare al paese europeo più industrializzato, la Germania, dove a partire dagli anni ‘80 è stato realizzato il piano di riconversione del Bacino della Ruhr, comprendente 6000 ettari di aree industriali dismesse. A Dortmund i minatori sono scomparsi ma la cokeria, uno dei luoghi di produzione siderurgica più inquinanti, dismessa nel 1992, è stata trasformata in un percorso museale. Duisburg, che è stato il principale porto per il trasporto del carbone e dell’acciaio della Ruhr, ha oggi un grande parco naturale. Anche in Spagna, a Bilbao, sommersa in passato dai fumi e dall’inquinamento, c’è stato uno straordinario processo di trasformazione. Nel 1997, mentre si esaurivano le miniere di ferro e la cantieristica navale emigrava nell’est asiatico, è stato inaugurato il museo Guggenheim, che nel primo anno di attività ha attirato 100 mila visitatori. Ma l’esperienza più riuscita è forse quella di Pittsburgh, negli Stati Uniti, grande centro industriale dal 1850 al 1980. Quando le industrie pesanti sono entrate in crisi, sono state riconvertite in produzione per la robotica, la biomedicina, l’ingegneria nucleare, la finanza e i servizi. Non mancano alcune valide iniziative in Italia. A Porto Torres, dove per anni è stato in esercizio un petrolchimico con dimensioni e produzioni non dissimili da quelle di Brindisi, è in atto un ambizioso progetto di riconversione industriale: diventerà il più grande centro europeo per la produzione di bio-plastiche e bio-lubrificanti, con un investimento di 750 milioni di euro.
Sarebbe bello un giorno, sorvolando la cattedrale, come la definirono pochi critici dell’insediamento petrolchimico nel 1959, poter costatare che il deserto è regredito, che dopo efficaci programmi di bonifica si sono insediate attività a elevato contenuto tecnologico e d’innovazione, che hanno creato nuove opportunità di lavoro. Ci vorranno forse anni, ma ciò potrà accadere, se ci saranno amministratori onesti e competenti, imprenditori pronti a rischiare, cittadini capaci di fare scelte giuste e assumere comportamenti coerenti.
Giuseppe Antonelli ( X puntata . Fine )
Che storia.
A proposito di lavoratori dell’industria chimica. George Weigel, teologo cattolico e biografo di Karol Wojtyla, a pagina 222 del suo libro “ Testimone della Speranza“, racconta che nel 1966 l’ allora arcivescovo di Cracovia fu al centro di una rovente polemica per una lettera inviata ai vescovi tedeschi in occasione del “millennio della cristianità polacca”. Karol Wojtyla proponeva di procedere a “ un reciproco perdono tra tedeschi e polacchi”. Il regime comunista si oppose alla pubblicazione con lo slogan: “Noi non dimentichiamo e non perdoneremo” . Venne architettata anche una risposta dei lavoratori dell’industria della soda a Wojtyla. Essi si dichiararono “profondamente sconvolti che l’arcivescovo avesse preso una decisione autoritaria su materie di vitale interesse per la nazione “.
Nella sua risposta Karol Wojtyla ricordò il periodo in cui aveva lavorato alla cava di Zakrzowek e nello stabilimento chimico Borek Falecki della “Solvay”; disse che quegli anni erano stati per lui “la migliore scuola di vita e la migliore preparazione possibile alle sue responsabilità” e che uomini che avevano condiviso come lui un’esperienza simile “non potevano rivolgergli accuse di quel tipo …”.
Se parlava in questi termini della sua esperienza di “lavoratore dell’industria chimica” il papa santo, noi avremmo poco da aggiungere
Innanzitutto un ringraziamento a Giuseppe Antonelli per averci illustrato,con dovizia di particolari,le vicende del più grande insediamento industriale brindisino e alla redazione di “brindisioggi” di valutare l’opportunità di aprire un “post”,aperto a comuni cittadini,sindacati,amministratori pubblici,politici,partiti,religiosi…. su cosa possa averci insegnato le vicende narrate e quale obiettivo industriale vorremmo che si raggiungesse nel nostro territorio.Non è sufficiente far sorgere industrie su di un territorio,occorre che quel territorio sia anche caratterizzato da una “comunità di persone”che condividano un sistema omogeneo di valori e comportamenti, alimentati dallo spirito di appartenenza e dalla fiducia reciproca, recepiti (assorbiti) da istituzioni portanti della società come la famiglia,le comunità religiose, le scuole,l’amministrazione pubblica,i sindacati,i partiti….. che devono essere obbligatoriamente modelli di comportamento morale ineccepibile. “
Senza questa comunità , senza valori e con la latitanza delle istituzioni, il pigmeo rimarrà sempre un pigmeo.Fargli poi tenere il passo del watusso è moralmente deprecabile, potrebbe forse, salvare momentaneamente l’azienda,ma sicuramente lo si condanna a morire di infarto e, di conseguenza,a chiudere anche l’azienda.
Congratulazioni ancora una volta a Lei che ha vissuto una vita veramente intensa , diretto testimone di fatti ALTI E SIGNIFICATIVI nel corso dei decenni . E’ evidente il pathos con cui racconta di generazioni di uomini e donne .Avrà sicuramente conosciuto GRANDI persone e persone piccole-piccole. L’epopea della MONTECATINI poi altro non è che la parabola del nostro paese probabilmente , con la corte di nani e ballerini da sistemare anche quando il tempio va a pezzi. Sono anche convinto che in questi momenti Lei stia pensando a quei lavoratori indiretti della Jindal che protestano fuori dai cancelli e che nessuno più rappresenta.
Sembra l’inizio della fine anche qui.
Saluti
Dopo queste pagine è tutto più chiaro . Spero che la storia del petrolchimico, funga da monito per la classe dirigente di oggi è domani. Grazie Pino.
Ricostruzione coerente ed appassionante, complimenti.
Purtroppo è desolante constatare che gli scenari si ripetono anche oggi, per altre realtà produttive e sempre per interessi che vanno oltre ogni comprensione dei cittadini brindisini. Ma forse più di qualcuno immagina …. estremismi e collusioni !!!
Speriamo solo che la città abbia un giorno la voglia di reagire e contrapporsi ai “pochi” che ci condizionano da decenni.