INTERVENTO/ Ho letto con la tristezza nel cuore la lettera di Michele, il ragazzo di Udine che si è tolto la vita. Con questa mia riflessione non intendo scendere nel giudizio della scelta, ma preferisco mettere in parole le emozioni che quella lettura straziante mi ha suscitato.
Ho deciso di scrivere perché quelle righe dolorosissime mi toccano personalmente, da ragazzo di 25 anni che viaggia, oggi come Michele fino a qualche giorno fa, in perenne salita.
Comprendo la costernazione, la condivido e la argomento, fino al punto da elevare la coscienza al senso di quelle denunce, ma dico anche che non è giusto pagare il disagio con la vita.
Il disagio, il senso di soffocamento generato da una società compressa, la confusione e lo spaesamento di un ragazzo che deve decidere che fare della sua vita, il viaggio come meta, si combattono con la stessa sofferenza di Michele, ma fino a un attimo prima di farla finita, di consegnare al game over un’esistenza che non ci è piaciuta.
Michele ha sopportato fino a trent’anni, non è piaciuto a lui sopportare, non piace neanche a noi, non può piacere una vita a tempo perso, non certo quella che non offre alcuna prospettiva.
Al fianco di Michele fino a quel maledetto 31 gennaio ci sono anche io, un ragazzo di Brindisi con la passione per la politica, magari con altre passioni che avrei potuto avere in comune con lui, quella stessa politica contro cui Michele punta il dito. Attorno scopro ogni giorno uno scenario complicato, illeggibile, irrisolto e non posso negare che i sogni spezzati incombano come un’ombra sopra una generazione che fa fatica. Perduta? Non lo so, una generazione che forse non ha neppure la forza per sgomitare.
Un cammino comune, lui trentenne, io di un lustro più giovane. Comune nel sentire le difficoltà del tempo, il fiato spezzato, l’epoca dei mediocri che impazza, la politica che rammenda le vesti stracciate di interessi miserabili, che non sa più né volare alto né guardare lontano. Purtroppo a tutti i livelli.
Eppure cambia il finale, perché ora a Michele direi che nonostante tutto non è finita, che la vita non può essere usata come un cartello di protesta.
La vita rimane un dono da vivere, e vivere significa credere nella potenza dei sogni, delle aspirazioni, dell’immaginario maggiormente desiderato, anche quando tutto, attorno, sembra svuotarti le vene.
Gli direi che io vado avanti, che non gliela do vinta, che la vita resta bella anche sotto un temporale vero o immaginario. Perché è così, è il suo misterioso richiamo, straordinario e incontrollabile. Affascinante, nonostante il tempo presente faccia ostacolo alla buona volontà e al talento. Come il talento di Michele, un ragazzo nel pieno dei sogni che ha scritto la parola “perduta” sulla lapide di una generazione.
Dichiarare la resa fa il gioco di chi ci vuole vinti, di chi ogni giorno sprofonda nel qualunquismo e nella menzogna, di chi castra l’entusiasmo perché ha paura del nuovo. Ma proprio ora fare squadra, sfondare il muro, riprendere un protagonismo che le generazioni che ci hanno preceduto si sono giocati a testa o croce, è la vera via di uscita.
Da quella parte, in direzione ostinata e contraria, e neppure impossibile se ci si rafforza a vicenda mettendo la testa fuori dal guscio e sviando da egoismi malati. Direi anche a Michele che questa non è l’unica epoca che penalizza i giovani, che la storia è piena di esempi, di lotte, di battaglie, di sepolcri offerti con la vita ad altri ideali.
Ma la vita non è un’arma, né lo slogan sullo striscione di un corteo. Ieri era sacrificata contro il nemico oppressore, oggi non è sacrificandola che si esce da tutto questo. Ne parlano i giornali, arriva l’eco di una certa indignazione, il sociologo scrive l’editoriale, poi tutto passa e l’età di Michele si ripete. Non tutto è compromesso, non può esserlo, perché un passo avanti è ancora possibile, forse non domani.
Io vado avanti per Michele, per tutti i ragazzi come Michele, dotati di quella “sensibilità” che non deve rendere più vulnerabili ma tornare a essere una marcia in più. Io ci provo dalla parte più malandata, la politica del senso comune, non perché mi piacciano le sfide impossibili, ma perché penso che la politica debba tornare alle origini scrollandosi di dosso il verminaio nel quale si ritrova.
Sarà illusione o che dai mulini a vento non mi piace scendere, sarà caparbietà oppure orgoglio ma la dichiarazione di resa, semmai verrà, non potrà mai pareggiare il valore della vita: sappi Michele, un visionario come don Chisciotte diceva che la vita dei cavalieri erranti va soggetta a mille pericoli ed infortuni; ma che soprattutto a loro è concessa la possibilità di diventare re e imperatori.
Ti capisco, forse ti ci voleva un altro po’ di follia. Per riprovarci.
Pietro Guadalupi
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