BRINDISI- Se si dovesse individuare un aggettivo per descrivere lo spettacolo teatrale dedicato all’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin messo in scena da Marina Senesi, esso non potrebbe che essere “lieve”. Anzitutto, perché questa è la precisa indicazione che proviene dalla stessa autrice e attrice della pièce, che si fa vanto, prima di ogni altra, proprio di questa qualità del suo lavoro: la levità. Levità non lievità: delicatezza, non trascurabile entità. E così effettivamente è.Un’opera costruita a quattro mani tra la stessa Senesi ed una giornalista di razza come Sabrina Giannini, della sontuosa squadra di Report (il programma d’informazione di Milena Gabanelli), con grande serietà metodologica, con un rigoroso sistema delle fonti, con una scenografia essenziale (un palco e un microfono) e con, unici “diversivi” durante la narrazione, alcuni spezzoni video tratti dalla stessa inchiesta di Giannini andata in onda ormai quasi dieci anni fa. Questa costruzione praticamente documentaristica, però, non incide in alcun modo sulla grande fluidità e piacevolezza della rappresentazione. E il merito, ovviamente, va tutto all’attrice ed al suo stile narrativo leggero, in alcuni tratti quasi satirico, in altri quasi di mero, asciutto, “accompagnamento” ai video nei quali le parole, le omissioni, le facce dei diretti protagonisti rimbombano (queste sì), in sé, di eccesso: nello sconcerto, nel dolore, nell’umiliazione, pur compostissimi, dei genitori di Ilaria per le continue “scoperte” sulla morte della loro figlia, sulle possibili cause, sui presunti autori, ma, soprattutto, sulle menzogne, sulle sceneggiate, sulle coperture, sui depistaggi di chi, invece, aveva l’obbligo istituzionale di cercare la verità, di fare giustizia. Ma, soprattutto, quell’eccesso ineffabile risalta, per l’appunto, nelle trame, negli inganni, nei voltafaccia, nei balbettii degli uomini “dello Stato”, che siano generali dell’esercito o barbe finte dei servizi segreti, dei quali il reportage di Sabrina Giannini (anche solo nei pochi spezzoni proiettati durante la pièce) fornisce uno spaccato che non si sa davvero se susciti più “rabbia, pena, schifo o malinconia”, per dirla con il “cantore” della vecchia piccola borghesia.
Marina Senesi si limita ad ascoltare quelle parole, ad assistere, per l’ennesima volta, a quelle prestazioni “di Stato” quasi come una spettatrice fra gli spettatori; non largheggia con i commenti, con gli aggettivi, né, men che meno, con l’enfasi, ma questo, chiaramente, non toglie nulla alla sua “capacità di stupirsi” che pare si rinnovi ad ogni nuova visione di quel video, di quello spettacolo e che si trasmette, quasi per osmosi, al pubblico in sala. Perché, forse, lo spettacolo vero, quello più istruttivo della serata, è offerto proprio da quel generale dell’esercito, Carmine Fiore (i nomi sono importanti in questi casi; vanno ricordati e pubblicati), a capo della spedizione militare italiana in Somalia nel 1993, il quale, esaminato e incalzato nel processo dal difensore della famiglia Alpi, parte civile, si rimangia letteralmente quanto dichiarato in precedenza su una serie di questioni nevralgiche relative al duplice omicidio di Ilaria e Miran, salvo poi spiegare che non si è trattato di menzogne bensì di “imprecisioni”. Senesi conclude la sua “lieve” orazione civile con un messaggio: sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, sulla sua dinamica, sul suo movente, sui suoi esecutori oggi non si hanno ancora certezze, né verità. L’unica certezza è che lo Stato, finora, ha fatto il possibile perché a quella verità non si arrivasse. Se proprio si deve muovere una critica al lavoro di Senesi e Giannini, essa muove proprio da questa “morale” scandita a chiare lettere dall’autrice: manca del tutto la spiegazione della dimensione “sistemica” di questa condotta “di Stato”. I vertici delle forze armate, di tutte le forze armate a seconda delle vicende, dei servizi segreti, delle istituzioni politiche e di governo non hanno offerto di sé questa mirabile immagine solo in questo caso. Al contrario, proprio sotto lo specifico profilo dell’operato dei vari pezzi dello Stato (con qualche, non irrilevante, differenza per quanto riguarda alcuni magistrati) vi sono dei punti di contatto, quasi di perfetta sovrapposizione, sia di sostanza che di forma, tra il caso Alpi e varie altre storie che vengono solitamente racchiuse nell’anodina classificazione di “misteri di Stato” e che, invece, ben più pregnantemente andrebbe riqualificata come “vergogne di Stato”: da Piazza Fontana ad Ustica all’affondamento della Kater I Rades. Ma, forse, fare teatro civile non significa necessariamente tenere un corso di storia contemporanea. E, soprattutto, forse, se così avesse fatto, Marina Senesi avrebbe tolto al suo spettacolo un po’ della sua dote principale, quella per la quale le notizie, il messaggio, comunque eticamente nobile e civilmente prezioso, sulla morte di una ragazza di 32 anni e del suo operatore, uccisi vigliaccamente solo perché volevano fare informazione, cioè solo perché volevano fare il loro lavoro, penetra così limpidamente e in profondità in chi vi assiste: la levità, per l’appunto.
Stefano Palmisano
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