L’avvocato della famiglia: «Vogliamo sapere se il piccolo si sarebbe potuto salvare»

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BRINDISI – È stato depositato in Procura, a Brindisi, stamattina alle 10.15, un esposto che chiede di fare chiarezza sulla morte avvenuta nella tarda serata di martedì 7, del bambino che una donna di Carovigno, al nono mese di gravidanza, portava in grembo. La tragedia si è consumata nell’ospedale Antonio Perrino di Brindisi e ora i famigliari della donna, il marito su tutti, vogliono sapere cosa è successo e se il piccolo avrebbe potuto avere salva la vita se gli ascensori della struttura, una vera e propria piaga sanguinante per l’azienda sanitaria, avessero funzionato regolarmente.

«Naturalmente – spiega l’avvocato Giovanni Zaccaria, legale della coppia – non abbiamo indicato alcun colpevole. Vogliamo solo capire se, con un intervento più tempestivo, si sarebbe potuta salvare la vita al bambino». Stando a quanto detto da alcuni medici al marito della donna incinta, il bambino sarebbe morto per soffocamento, dal momento che avrebbe ingerito tanto liquido amniotico da non poter essere salvato neanche con l’aspirazione. La legittima aspettativa della coppia e del loro legale è di sapere se, al netto di imprevisti e disservizi vari, il piccolo avrebbe potuto avere qualche chance in più. Insomma, bisogna verificare se arrivando prima al quinto piano, utilizzando l’ascensore che invece era in panne, le possibilità di salvezza per il piccolo sarebbero potute essere maggiori.

Nell’esposto presentato in Procura, Zaccaria ha fornito ai magistrati la versione dei fatti così come riferitagli dai suoi assistiti. «La paziente è arrivata in ospedale intorno alle 21.25 di martedì sera. È stata portata al nono piano, sede del reparto di ginecologia. Verso le 21.50, dopo aver effettuato il tracciato, si è deciso di trasferirla al quinto piano per il parto cesareo. Giunti all’ascensore adibito allo spostamento dei pazienti, uno di quelli grandi in cui è possibile caricare una barella, la paziente e il personale non hanno potuto usufruire del trasporto poiché il sistema non funzionava. A questo punto, la mia assistita è stata avvolta in delle coperte, è stato chiamato il personale della sicurezza per sbloccare alcune porte che davano su una rampa esterna alla struttura e da qui la barella e il personale sanitario che accompagnava la paziente hanno raggiunto il quinto piano».

Le anomalie, stando al racconto di Zaccaria, non si esauriscono qui. «Intorno alle 23.25, il marito della donna, dal nono piano dove attendeva il suo ritorno, ha visto che qualcuno cercava di infilare un’incubatrice in uno degli ascensori più piccoli, quelli riservati ai visitatori. Anche in questo caso, per una questione di dimensioni del macchinario, troppo grande per il vano cabina, si è dovuti ricorrere allo stesso sistema usato per la paziente: si è chiamato il personale di sicurezza che ha aperto le porte esterne e l’incubatrice è stata portata così al quinto piano».

La tensione dell’uomo, a questo punto, è aumentata anche perché era ben conscio che l’unica partoriente dell’ospedale fosse la moglie. «Il mio assistito – prosegue l’avvocato – è stato raggiunto da una dottoressa verso le 00.30: il medico gli ha comunicato che, nonostante tutti gli sforzi profusi dall’equipe, il bambino non ce l’aveva fatta. Un altro dottore, sopraggiunto poco dopo, ha dichiarato che il piccolo aveva ingerito troppo liquido amniotico e che neanche procedendo all’aspirazione è stato possibile salvargli la vita». Ora la parola passa ai magistrati che dovranno ricostruire quei minuti e accertare cosa e quanto si sarebbe potuto fare per salvare la vita al piccolo che, comunque, non potrà tornare mai all’affetto di una madre che l’ha portato in grembo 9 mesi.

Maurizio Distante

 

AVG Teorema

1 Commento

  1. scusate, non x banalizzare..ma nessun medeico ha intuito subito che,data la ben nota situazione degli asccensori e la delicata urgenza del parto, sarebbe stato più opportuno accpompagnare la partoriente DIRETTAMENTE AL v PIANO?

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