BRINDISI- (da Il7 Magazine) Picchiata, offesa, minacciata anche davanti ai figli, Maria, il nome è di fantasia, ad un certo punto ha guardato negli occhi quei bambini spaventati che ogni giorno assistevano a quelle violenze ed ha deciso di denunciare. Oggi la sua vita è cambiata , ha trovato un lavoro e ringrazia gli assistenti del centro ascolto e le forze dell’ordine chiamandoli “angeli”. Questa è solo una delle tante storie di violenza sulle donne della provincia di Brindisi ma con un lieto fine, molte altre restano sommerse, chiuse tra quattro mura domestiche, soffocate dalla paura e dalla vergogna. A raccontare le storie di queste donne e il loro dramma è Francesca Cafarella, psicologa del Centro Antiviolenza “Ricomincio da Me” di Brindisi gestito dalla cooperativa Ferrante Aporti. L’occasione è stata data dalla mostra “Com’eri vestita? What were you wearing?”, in questi giorni visitabile presso la Palazzina Belvedere , sul lungomare di Brindisi della Fondazione Faldetta. La mostra mette in discussione i pregiudizi e gli stereotipi che emergono nei confronti delle vittime, spesso ritenute responsabili dei maltrattamenti subiti. E lo fa esponendo gli abiti indossati dalle vittime al momento della violenza subita: vestiti che tutte le donne utilizzano nella vita quotidiana, che raccontano 17 storie di abusi. Storie che riflettono un fenomeno fin troppo diffuso che i centri antiviolenza cercano di contrastare ogni giorno raccogliendo il grido di dolore delle donne.
“Il comportamento violento è alimentato spesso dalle dipendenze, come droga e alcol, ma non è riconducibile ad una patologia bensì ad un problema culturale- ci spiega la dottoressa Cafarella- La donna viene considerata inferiore, non ha libertà di scelta, dalle semplici cose legate alla quotidianità alla decisione di lasciare il compagno o marito. La violenza si manifesta nei comportamenti, nelle aggressioni fisiche e nelle mortificazioni psicologiche, persino economiche. Ci sono donne che non hanno la libertà neppure di gestire le loro finanze, donne che lavorano ma che non possono utilizzare i propri guadagni. La situazione , poi , si fa più complicata quando non hanno neppure quelli, quando non lavorano. Questo influisce sulla loro decisione di chiudere la relazione, perché non hanno autonomia economica e magari ci sono anche dei figli da crescere e mantenere”. Ogni mese sono decine le donne che si rivolgono al centro antiviolenza “Ricomincio da me” di Brindisi e quando accade si innesca un meccanismo di protezione nei confronti della vittima che ruota intorno ad una rete di collaborazione con le forze dell’ordine.
“Quando una donna , finalmente, decide di denunciare, soprattutto nei casi più gravi, madre e figli vengono trasferiti in una casa rifugio protetta- dice la psicologa- E’ un passo molto difficile perché bisogna allontanarsi dagli affetti, dalla propria abitazione, i bambini devono rinunciare alle loro amicizie, ai loro compagni di scuola, ai loro interessi. La macchina della giustizia, poi, ha i suoi tempi, è lenta e la permanenza nelle case rifugio non si sa quanto durerà.
I bambini spesso sono vittime secondarie, assistono alle violenze subite dalle mamme”. A Brindisi ci sono tre centri anti violenza, uno pubblico e due privati. Sono operativi : il centro Crisalide gestito dal Comune di Brindisi, il centro “Ricomincio da me” e il centro “Io Donna”.
La pandemia ha accentuato il fenomeno della violenza sulle donne, la convivenza forzata ha fatto emergere moltissimi casi di violenza domestica. Ma per altrettanti, fortunatamente, si è riusciti ad intervenire e le donne sono state trasferite in centri protetti. Questo è stato possibile soprattutto grazie alla stretta collaborazione con le forze dell’ordine, con la Questura di Brindisi dove vi è una sezione dedicata della Squadra Mobile che si occupa della violenza di genere.
“Noi abbiamo una sezione specializzata, operatori formati, se non altro acquisita negli anni- spiega la dirigente della Squadra Mobile di Brindisi, Rita Sverdigliozzi- operatori che sono in grado di ascoltare le donne, di raccogliere le denunce e di raccogliere il grido di aiuto e poi di intavolare una serie di relazioni sul territorio, quindi contattare o essere contattati da altri enti ed istituzioni che sono in grado di aiutare queste donne. Le donne, quando vengono da noi, si aspettano di essere ascoltate, l’operatore deve avere una empatia, non deve avere un atteggiamento giudicante e non deve avere fretta. La donna ha bisogno di raccontare il suo vissuto e qualunque sia il tempo che resta da noi. Abbiamo maturato questa esperienza sul campo, le situazioni sono tantissime. Ci vogliono ore per far sì che la donna si apra, che si racconti , che ci riferisca ogni minimo dettaglio, le parole esatte, i gesti. L’anno scorso abbiamo inaugurato la stanza delle parole non dette, perché ci rendiamo conto che magari una donna o anche un minore ha difficoltà ad aprirsi mentre in quella stanza non c’è un computer o una scrivania. E’ un ambiente più accogliente, diverso da un ufficio”. Solo nel 2020 sono stati denunciati alla Questura di Brindisi 70 episodi di maltrattamenti in famiglia che hanno visto vittime donne e minori. Durante il lockdown la casa per alcune donne e figli è diventato il luogo dell’incubo. Quest’anno i numeri non sono molto diversi, decine di denunce e segnalazioni sono arrivate alle forze dell’ordine che grazie alla rete con servizi sociali e centri di ascolto, sono riuscite ad aiutare tante donne. Non solo, grazie all’introduzione normativa del “Codice Rosso”, le gravi condotte, in passato non adeguatamente tipizzate, hanno trovato una risposta adeguata. La Polizia di Stato, da ultimo, ha introdotto il nuovo applicativo “Scudo” in cui confluiscono tutti gli interventi delle pattuglie (Polizia e Carabinieri) per violenza domestica. I dati inseriti sono, quindi, patrimonio comune e consentano agli operatori, in tempo reale e in fase di primo intervento, di consultare e individuare informazioni che riguardino soggetti o luoghi, oggetto di precedenti segnalazioni.
“Dobbiamo lavorare sulle nuove generazioni, per questo è importante entrare nelle scuole- dice la psicologa Cafarella- Ci sono stati casi in cui i ragazzi partecipando ai nostri incontri hanno riconosciuto una situazione di violenza in casa e poi sono stati loro stessi ad allertare le forze dell’ordine e denunciare. Gli incontri nelle scuole possono fare emergere il sommerso”.
Non è possibile tracciare un profilo preciso della vittima e del suo aguzzino, questo perché il problema della violenza di genere è legato più ad un retaggio culturale che ad una patologia o a un disturbo. “Purtroppo qui vige ancora il sistema patriarcale, un retaggio culturale che si fa sentire- spiega, ancora, la dottoressa Cafarella- Le vittime sono anche donne molto giovani, spesso non raggiungono neppure i 30 anni. Non c’è una differenza di estrazione sociale, possono essere casalinghe ma anche professioniste proprio perché ciò che influisce è il contesto culturale . Gli uomini, poi, sono abili manipolatori. Abbiamo avuto il caso di una donna , con figli, anche piccoli, che è riuscita ad allontanarsi dal compagno alcolizzato e violento. E’ stato un percorso lungo e difficile ma oggi lei continua a ringraziarci e a dire che siamo stati i suoi “angeli”. Ma vi sono stati anche casi in cui la stessa famiglia della vittima ha cercato di influenzare la decisione della donna affinchè non denunciasse il compagno, perché era il padre dei suoi figli, perché era legata dal vincolo del matrimonio, perché era suo dovere sottostare al marito. Questo tipo di comportamento e la mancanza di appoggio genera un senso di colpa nella donna che pensa che denunciando possa togliere il padre ai suoi figli o abbandonare l’uomo che ama. Perché in fondo anche le donne violate amano il loro uomo. Il percorso di ricostruzione psicologico, lavorativo , sociale è lungo perché le vittime devono recuperare l’autostima che viene distrutta dai loro aguzzini. Per questo motivo proprio in sinergia con forze dell’ordine e servizi sociali , i centri antiviolenza stanno cercando di mettere in piedi un programma di reinserimento delle donne violate nel tessuto sociale e lavorativo. Le donne che si rivolgono a noi pensano di essere deboli in realtà sono donne coraggiose”.
Lucia Pezzuto per Il7 Magazine
Commenta per primo