Chiusura dell’ex Ilva: saltano 1500 posti di lavoro anche nel Brindisino, tremano le imprese dell’indotto

BRINDISI – (da il7 Magazine) Sono passati dieci giorni da quando ArcelorMittal ha annunciato al governo italiano il recesso del contratto dell’ex Ilva. Il 12 novembre la multinazionale ha depositato all’iscrizione al ruolo in tribunale a Milano l’atto di citazione per il recesso del contratto di affitto. Il premier Conte non ha una soluzione. A rischio 15mila posti di lavoro: 8277 diretti, e circa 6mila dell’indotto. Le prime ripercussioni le risentono proprio gli operai delle ditte appaltatrici: a qualcuno questo mese non arriverà lo stipendio, per altri si prevedono ritardi, mentre alcune aziende hanno già avviato la richiesta di cassa integrazione. La crisi dell’acciaieria si fa sentire anche nella provincia di Brindisi: si parla di almeno 1500 lavoratori che ogni mattina partono dalle loro case di Mesagne, Latiano, Francavilla Fontana, San Michele Salentino, Villa Castelli, Cisternino, e in parte anche dal capoluogo per raggiungere il siderurgico. Tante sono anche le aziende della provincia di Brindisi che hanno commesse con la multinazionale francoindiana: si occupano di manutenzione degli impianti ma anche dei lavori di ambientalizzazione previsti in quel famoso contratto firmato nel 2018 tra ArcelorMittal e lo Stato italiano. La preoccupazione è tanta, appalti di milioni di euro che potrebbero far saltare le aziende, e mandare a casa o in cassaintegrazione gli operai. Una vertenza che si aggiunge alle tante già esistenti sul territorio, come quelle di Tecnomessapia, Leucci Costruzioni, Tecnogal, Dema-Dar-Dcm.

“C’è il rischio concreto che altre centinaia di lavoratori delle manutenzioni che ogni giorno da Brindisi si recano a Taranto alle dipendenze delle varie piccole e medie aziende brindisine- afferma Angelo Leo, segretario Fiom della provincia di Brindisi – perdano il posto di lavoro. Queste aziende già provate e private dalla perdita di commesse tra Cerano e il Petrolchimico di Brindisi, sono letteralmente terrorizzate insieme ai loro dipendenti, di quello che può accadere a Taranto. In questa drammatica situazione resta sconvolgente come l’intera classe politica nazionale continui nella sua propaganda elettorale perenne, mentre il mondo intorno cade a pezzi”. Per il sindacato si sta rischiando un deserto industriale. “Servono misure pubbliche e un piano industriale per incentivare gli investimenti – aggiunge Leo – è necessaria una programmazione economica puntando sulle realtà produttive che non hanno impatti ambientali. Non possiamo solo vivere di turismo e agricoltura, noi non siamo la Grecia”. Al momento non si ha il numero esatto delle aziende del Brindisino che operano dentro l’ex Ilva, ma Confindustria e Cna spiegano che sono numerose: alcune sono della zona industriale di Brindisi, altre di Francavilla e di Oria.

Tra queste c’è la Comosud stabilimento metalmeccanico di proprietà di Franco Gentile, presidente della Cna. L’azienda sta costruendo a Brindisi le macchine per la movimentazione del parco minerario, quello al di sotto dei capannoni commissionati a Cimolai, che a sua volta ha appaltato diversi lavori a ditte locali. “Si tratta di una grossa commessa – spiega il titolare di Comosud – stiamo costruendo tre macchine e nella lavorazione  abbiamo coinvolto altre aziende di Brindisi e provincia. Per questa costruzione stanno lavorando oltre 150 persone tra noi e i nostri subfornitori”. L’imprenditore è preoccupato per la situazione ed ha già bloccato l’acquisto delle materie prime. Tutta la sua azienda negli ultimi tempi è concentrata su questa commessa, se dovesse andare persa il risvolto sarebbe drammatico. “Il 12 abbiamo fatto una riunione con i rappresentanti di ArcelorMittal – dice Gentile – loro ci hanno chiesto il cronoprogramma dei lavori. Noi abbiamo chiesto invece maggiori garanzie per continuare. Al momento nessuno ci ha comunicato nulla. E siamo preoccupati.  Molte aziende metalmeccaniche erano già in fortissime difficoltà per i crediti vantati con la gestione commissariale e mai ottenuti”. Gli imprenditori hanno paura che possa verificarsi la stessa situazione del 2015 quando con il passaggio tra la famiglia Riva e la gestione commissariale dello Stato sono andati persi oltre 150milioni di euro di crediti. Per Gentile il governo dovrebbe trovare un accordo con ArcelorMittal e lasciargli il tempo di ambientalizzare. “Loro devono rispettare determinati accordi – dice ancora il presidente della Cna –  ma nello stesso tempo bisogna dare tempo. Qualcuno deve rivedere la propria posizione”. Il problema è che ArcelorMittal ha messo sul piano del governo 5mila esuberi, e questa è una delle condizioni determinati per la multinazionale, a parte lo scudo penale e la questione giudiziaria dell’Altoforno dove morì un operaio. “C’è ansia di capire cosa accadrà. Qui nessuno sa nulla – spiega Antonio Roma, titolare dell’azienda Sir – Siamo preoccupati per le scadenze a brevi, abbiamo tre milioni di euro fuori che dovremmo incassare a breve”. Anche la Sir si trova alla zona industriale di Brindisi, nell’ex Ilva si occupa della manutenzione e pulizia industriale e anche della bonifica di una piccola parte dell’amianto, il siderurgico è pieno di amianto.  “Ho sentito l’ufficio acquisti – aggiunge Roma – hanno detto che pagheranno a breve. Ma il futuro è incerto. Non si capisce nulla”. La Sir ha gestito anche sino qualche giorno fa lo sbarco e il trasporto ferro al porto di Brindisi, ma poi l’attività è stata bloccata, e anche alcune navi che si trovavano in rada al porto di Taranto sono state dirottate presso altri stabilimenti Mittal. Taranto davanti ad un bivio, mentre si consuma ancora una volta la lotta tra lavoro e salute. Molti lavoratori chiedono la chiusura dello stabilimento ma reclamano un’alternativa. Le famiglie, le mamme di Taranto, rivendicano il diritto alla salute e all’esistenza. Al quartiere Tamburi le facciate dei palazzi sono macchiate di rosso, piene di minerale. Anche il primo capannone bianco, costruito per coprire il parco minerario, dopo qualche mese è già diventato rossastro. Per evitare che si veda il ferro alcune palazzine sono state tinteggiate appositamente di scuro. Sotto i porticati ci sono decine di cartelli vendesi: ai Tamburi una casa di 120 metriquadrati costa 50mila euro. Ma sono vuote da anni. Nessuna si copra più una casa all’ombra dell’Ilva con affaccio sulle collinette sotto le quali sono state ammassate tonnellate di rifiuti, come hanno evidenziato lo scorso anno le indagini dei carabinieri dei Nas.

Qui anche i parchi giochi sono chiusi: erba alta e giostrine rotte e abbandonate. In questo quartiere c’è il divieto per i bambini a giocare per strada. Il premier Giuseppe Conte l’8 novembre scorso ha sbattuto la faccia contro questa realtà. Dopo aver incontrato i lavoratori in fabbrica e i cittadini fuori dai cancelli dell’acciaieria è andato ai Tamburi, c’è stato sino a mezzanotte. Ha ascoltato il dolore della gente, la disperazione di chi perde il posto di lavoro, ma anche è soprattutto di chi ha perso figli e propri cari. Questa cruda realtà ha portato il presidente del Consiglio a scrivere una lettera a tutti i ministri per chiedere dell’idee per quello che ha definito il “cantiere Taranto”.

 Conte chiede aiuto a tutti. “Durante la mia recente visita a Taranto- ha scritto il premier – ho potuto constatare come la vicenda dello stabilimento industriale ex Ilva costituisca solo un aspetto, seppure di assoluto rilievo, di una più generale situazione emergenziale in cui versa la città e la sua popolazione. Il rilancio dell’intera area necessita di un approccio globale e di lungo periodo. La politica deve assumersi la responsabilità di misurarsi con una sfida complessa, che coinvolge valori primari di rango costituzionale, quali il lavoro, la salute e l’ambiente, tutti meritevoli della massima tutela, senza che la difesa dell’uno possa sacrificare gli altri. Per questo, reputo necessario aprire un “Cantiere Taranto”, all’interno del quale definire un piano strategico, che offra ristoro alla comunità ferita e che, per il rilancio del territorio, ponga in essere tutti gli strumenti utili per attrarre investimenti, favorire l’occupazione e avviare la riconversione ambientale. I processi di ristrutturazione o riconversione del tessuto industriale e delle infrastrutture di una determinata area geografica – come dimostrano alcune esperienze in Italia e in Europa – si portano a compimento solo attraverso politiche coordinate e sinergiche, che coinvolgano tutti gli attori istituzionali – in primis il Governo – le associazioni di categoria, i comitati locali e tutte le forze produttive del Paese”.Conte va a Taranto è non ha una soluzione, lo dice chiaramente ai tarantini. Un gruppo di associazioni presenta un “Piano B”, uno di quelli che prevede spegnimento e bonifica del sito con impiego dei lavoratori.

Lucia Portolano

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