A 50 anni dal naufragio dell’Heleanna, il racconto di Emanuele che salvò tra le sue braccia una bimba

BRINDISI –  (da il7 Magazine di Marina Poci) Di quella notte ricorda l’odore di bruciato, le urla dei naufraghi, le onde alte, l’acqua gelida, il tenero corpo della bimba belga di pochi mesi che salvò dalla furia dell’Adriatico tenendola distesa su di sé, mentre tentava di restare a galla sperando nell’arrivo dei soccorsi.

Dei giorni precedenti, trascorsi in Grecia, ha ancora in mente l’odore del mare, i pranzi con la famiglia della madre Maria, il desiderio di suo padre Vincenzo di comprare una casa da utilizzare per le vacanze e poi per trascorrere la vecchiaia, una volta che fosse andato in pensione.

Poi l’ultimo ballo dei suoi genitori, una danza popolare greca simile alla pizzica salentina, con fazzoletti colorati a sventolare tra un passo e l’altro, nel salone della nave ellenica Heleanna, che di lì a qualche ora avrebbe preso fuoco al largo di Torre Canne, a circa 25 miglia nautiche da Brindisi, mentre copriva la tratta Patrasso-Ancona.

Era l’alba del 28 agosto 1971 quando un incendio, scoppiato a seguito di una fuga di gas nelle cucine di quella vecchia petroliera svedese convertita a nave passeggeri, cambiò irreversibilmente le vite del ventiseienne Emanuele Zecchino e di suo fratello minore Giorgio.

I due giovani uomini scamparono miracolosamente al naufragio, ma restarono orfani di entrambi i genitori, vittime, come altre 41 persone (tra morti e dispersi), dell’impreparazione dell’equipaggio greco, totalmente incapace di affrontare l’emergenza, e dell’avidità dell’armatore Constantino Efthymiadis, che, per ottimizzare le spese di viaggio, abitualmente non esitava a consentire alla nave di salpare con il doppio dei passeggeri autorizzati: “Sulla nave, tarata per poco più di 600 persone, ce n’erano circa 1.200, per cui mancarono le condizioni minime, anche di spazio, per gestire in sicurezza quella folla di gente terrorizzata. Ognuno agiva per conto proprio, non ci fu nessun coordinamento, nemmeno da parte degli ufficiali più alti in grado. Tanto per cominciare, mancavano gli estintori e quei pochi che c’erano non funzionavano bene: a ripensarci adesso, sembra assurdo, ma è così. L’incendio si propagò velocemente non soltanto perché con il passare delle ore si alzò il vento, ma anche perché si perse tempo prima di dare l’allarme: i greci erano talmente ignoranti in materia che pensarono di poter spegnere le fiamme passandosi secchiate d’acqua, mentre ci sarebbe stato bisogno degli idranti per controllarle. Le scialuppe erano di numero insufficiente a mettere in salvo tutti i passeggeri ma, cosa più grave, le poche che c’erano non funzionavano tutte. Alcune addirittura restarono appese alla nave perché gli argani, forse arrugginiti, si bloccarono impedendo la discesa. Altre si rovesciarono, già piene di gente, mentre tentarono di calarle in mare. Molti passeggeri furono risucchiati dalle eliche e morirono dilaniati, alcuni annegarono. Io e mio fratello, insieme ai nostri genitori, assistevamo impotenti a questa tragedia perché, almeno in un primo momento, decidemmo di indossare il salvagente e di restare a bordo, fiduciosi che prima o poi avrebbero domato l’incendio o che, almeno, qualcuno sarebbe arrivato a soccorrerci. Avevamo passato la notte in macchina, sul ponte della nave, dal momento che non eravamo riusciti a trovare cabine libere. Fummo svegliati dalle grida degli altri passeggeri e immediatamente, allarmati dal fuggi fuggi generale, uscimmo dalla vettura per cercare di capire cosa fosse successo.  Cominciavamo a vedere pescherecci, altre navi e qualche elicottero, così speravamo che ci avrebbero salvati presto”, racconta Emanuele Zecchino, oggi settantaseienne in pensione dopo una vita trascorsa come agente immobiliare a Torino.

L’inadeguatezza dei membri dell’equipaggio, del tutto incapaci di dare indicazioni di comportamento e di mettere in pratica le corrette istruzioni per garantire l’incolumità dei passeggeri durante le operazioni di evacuazione, emerse con stupefacente chiarezza nei procedimenti penali, celebrati ad Atene e a Brindisi, a carico del comandante e dell’armatore.

Ciò che i processi rivelarono appena, e di cui soltanto chi era sulla nave fu testimone, fu la sistematica opera di sciacallaggio perpetrata sui bagagli dei passeggeri e sui cadaveri delle vittime da parte del personale di bordo. Emanuele Zecchino ricorda con rabbia e amarezza i furti nelle cabine e nelle autovetture, i morti depredati di denaro e gioielli, le mani dei membri dell’equipaggio tese verso l’alto per riparare dalla furia dell’acqua e del fuoco quanto erano riusciti ad arraffare mentre i naufraghi cercavano riparo sulle scialuppe o si buttavano in mare per non essere raggiunti dalle fiamme.

Il ricordo di quelle mani incapaci di aiuto, ma pronte a saccheggiare e profanare, lo ha perseguitato per anni e resta, a suo parere, l’aspetto più vergognoso di una vicenda che presenta più di un risvolto del quale la Marina greca, e forse lo Stato ellenico nel suo complesso, dovrebbero provare disgusto: “Anche dopo che erano stati salvati, ho visto i membri dell’equipaggio intenti a cercare di far asciugare le banconote rubate. C’era morte tutto intorno, ma la loro preoccupazione era quella di mettere in salvo il denaro. Anni dopo ho saputo che quella gente, pagata dall’armatore quattro soldi per rischiare la vita su quella nave, grazie ai furti di quella notte ha comprato l’automobile nuova o ha ristrutturato la casa”.

Inqualificabile fu pure la condotta del comandante Dimitrios Anthipas, la cui unica preoccupazione, nell’incipiente disastro, fu quella di mettersi in salvo sulla scialuppa più sicura accompagnato dalla moglie e dal cane, senza preoccuparsi che la nave sarebbe rimasta priva di guida. Zecchino assistette a quella scena e, nonostante la concitazione del momento, ne conserva nitida la dolorosa memoria: “Li ho visti con i miei occhi, anche se lì per lì ho stentato a credere che stesse davvero accadendo. Sono saliti su una scialuppa quasi per primi, in compagnia di qualche altro ufficiale, lasciando i passeggeri in balia di se stessi”, accusa Zecchino che, al contrario del comandante, attese qualche ora prima di abbandonare la nave. Lui, i genitori e il fratello, infatti, si buttarono in mare soltanto quando fu chiaro che le fiamme li avrebbero raggiunti da lì a pochi minuti, indossando dei modesti salvagente certamente inadatti a mantenerli a galla con le onde così alte.

“I miei genitori, calandosi, non riuscirono a tenersi alla corda per via del vento e del mare mosso. Nell’impatto con l’acqua persero il salvagente e morirono annegati. Una volta messomi in salvo, li ritrovai in due diversi porti pugliesi, perché erano stati ripescati da navi diverse. Mia madre era a Brindisi, mio padre a Monopoli. Io non avevo riportato ferite, ma rimasi ugualmente in ospedale a Brindisi per un paio di giorni, in osservazione, poi i miei zii vennero da Firenze e mi accompagnarono a Monopoli per riconoscere il corpo di papà. Mio fratello, invece, fu salvato da un elicottero della Marina Militare italiana quasi nei pressi delle coste albanesi, dove il vento lo aveva trasportato una volta che si calò in mare”, ricorda con sorprendente lucidità il signor Zecchino.

Di quelle ore drammatiche, segnate dalla perdita dei genitori e dall’incertezza sulla sorte del fratello, resta però anche la tenerezza di un salvataggio del quale Zecchino stesso, prima di essere a sua volta localizzato dai soccorritori, si rese protagonista: “Una bambina di nazionalità belga, mai identificata e mai rintracciata malgrado le lunghe ricerche da me messe in atto, galleggiava in mare accanto ad una donna che immagino fosse la madre. La afferrai al volo e la tenni con me sino all’arrivo di una scialuppa di salvataggio calata da una petroliera americana, fortunatamente di passaggio nelle acque brindisine. Non avevo la forza di nuotare, per cui fluttuavo, supino, con la bimba distesa addosso, cercando di farla bagnare il meno possibile perché avevo paura che prendesse troppo freddo”.

Rimase in acqua circa un’ora e mezza, il signor Emanuele, prima di essere recuperato dagli americani e tornare alla vita di prima, accanto agli altri due membri della famiglia, un fratello e una sorella che non avevano accompagnato i genitori Zecchino in vacanza in Grecia, restando a Torino, dove vivevano.

Il processo greco, seguito personalmente da Zecchino grazie ad uno zio, fratello della madre, avvocato ad Atene, fu un’autentica farsa. Udienze pilotate, testimonianze manipolate, nessuna condanna per capitano e alti ufficiali, estradati; nessun risarcimento per i sopravvissuti, né per le famiglie delle vittime, in quanto la nave era sotto-assicurata. Nessuna giustizia, in definitiva, per i morti dell’Heleanna: “A quei tempi in Grecia vigeva il regime dei colonnelli, molti dei quali erano direttamente in affari con gli armatori più facoltosi, che sovvenzionavano i dittatori. Le inchieste italiane, successive al processo greco, accertarono le pessime condizioni della nave, il mancato funzionamento di tutti i sistemi di sicurezza e i reati di cui furono colpevoli equipaggio e ufficiali, reati di cui io e altri sopravvissuti siamo testimoni oculari e che non possono essere negati. Ma la magistratura greca, collusa con i dittatori, non riconobbe mai quelle responsabilità. Non ho paura di dire che equipaggio e giudici, con i loro comportamenti indecorosi, non sono degni di essere cittadini della nazione dove è nata la democrazia”, afferma con riprovazione Zecchino, che poi continua: “Qualche anno dopo il naufragio, ebbi la sfortuna di incontrare, mentre ero in vacanza a Creta, il capitano dell’Heleanna. Seppi che, nonostante il suo vergognoso abbandono della nave e il tentativo di fuga una volta approdato al porto di Brindisi, il governo greco gli aveva riconosciuto una licenza per guidare le imbarcazioni minori e fare il pescatore. Non più traghetti, quindi, ma barche. Come se quei morti non ci fossero mai stati…”.

Con il fratello Giorgio, naufrago insieme a lui e mancato per un infarto otto anni fa, spesso Emanuele ricordava i concitati minuti in cui, gettandosi in mare per ultimi, furono separati dalla forza delle onde e persero di vista i genitori. Ogni nuova tragedia del mare, dal 1971 in poi, ha rievocato nei fratelli Zecchino l’indifferenza dell’equipaggio greco davanti ai passeggeri imploranti aiuto, la ricerca frenetica dei salvagente, la delusione provata ogni volta che un peschereccio, nel timore che l’Heleanna esplodesse, si allontanava senza nemmeno provare a prestare soccorso. E poi le parole di rassicurazione rivolte da Emanuele alla madre prima di vederla inghiottita dalle acque e gli ultimi sguardi di incoraggiamento scambiati con i genitori prima di calarsi in mare.

Sulla nave, a quel punto, erano rimasti soltanto i componenti della famiglia Zecchino, oltre ad un camionista greco che perse la vita buttandosi in acqua. Diversi anni dopo il destino fece ad Emanuele l’immenso regalo di mettere sulla sua strada il figlio di quell’uomo, proprio sul tragitto Ancona-Patrasso. Zecchino aveva conservato una moneta greca della nave Heleanna, affumicatasi a causa dell’incendio. La tirò fuori durante il viaggio e il greco la riconobbe, dando inizio ad una conversazione molto toccante nel corso della quale descrisse il padre ad Emanuele, che identificò in lui l’uomo insieme al quale aveva aiutato la gente a calarsi in mare, lo stesso uomo che si era buttato un attimo prima di Zecchino, quando le fiamme si erano ormai propagate su tutto il ponte.

Eppure, nonostante il trauma del naufragio e il dramma della morte dei genitori, il legame di Zecchino con la Grecia è ancora oggi più vivo che mai: qualche anno dopo i fatti dei quali commemoriamo quest’anno il cinquantesimo anniversario, sposò una donna greca, conservando con il Paese la speciale connessione che la sua famiglia, dal 1821, aveva stabilito con gli ellenici e che risale a quando il suo bisnonno rispose all’appello che i greci rivolsero al resto dell’Europa per essere sostenuti nel respingere gli assalti ottomani. Rientrato in Italia con la famiglia per evitare di combattere contro i connazionali italiani ai tempi dello sciagurato “Spezzeremo le reni alla Grecia”, Vincenzo Zecchino, padre di Emanuele, si stabilì a Torino aprendo una rivendita di frutta e verdura.

Le ultime parole dell’anziano naufrago non sono di ricordo, ma di ammonimento: “Quello che mi interessa è che questa tragedia non sia dimenticata e, soprattutto, che sia di esempio per il presente e il futuro. Ancora oggi, le navi che fanno la spola tra Italia e Grecia sono sovraffollate: non ci sono controlli da parte delle capitanerie di porto né in partenza né all’arrivo e soprattutto, non ci sono verifiche sulla sicurezza. Sono pronto a scommettere che, se dovesse capitare nuovamente un incidente del genere, le scialuppe delle navi greche non funzionerebbero. Se racconto nel dettaglio quello che mi è successo, non è perché mi piaccia ricordare, ma perché nessuno debba soffrire come abbiamo sofferto io e mio fratello Giorgio”, conclude con sconforto Emanuele Zecchino.

2 Commenti

  1. Buon pomeriggio, vi contatto perché sono un parente di una coppia che ha viaggiato sulla nave Heleanna, affondata nel 1971. Uno di loro era mio padre, che ha parlato in un’intervista radiofonica. Volevo chiedervi se fosse possibile avere quell’audio perché mi piacerebbe poterlo ascoltare. Grazie mille, cordiali saluti

    Natalia Lamanna

  2. Emanuele Zecchino. Un Uomo con la “U” Maiuscola! Degno di questo nome! Gli altri personaggi collusi con i famigerati colonnelli, ricordando la sciagurata affermazione “Spezzeremo le reni alla Grecia” suscitano ribrezzo. la Storia non insegna proprio nulla agli esseri umani. Ma i giovani di adesso vogliono sapere di più come fu la realtà del fascismo alleato dei nazisti! Ricordiamo SEMPRE!!! Facendo di tutto per insegnare la Democrazia, il Diritto, l’Onestà ai nostri figli!!!

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