BRINDISI – (da il7 Magazine) Una finestra che si affaccia direttamente sulla strada che diventa il canale di comunicazione tra il mondo esterno e i detenuti. Sarebbe entrato di tutto da questa finestra del carcere di Brindisi: droga e soprattutto pizzini. I boss della Sacra corona unita comandano dalle loro celle, è da qui che impartiscono gli ordini per i propri sodali. Dal carcere gestiscono i traffici di droga, le estorsioni e le varie attività illecite che servono a riempire la “cassa comune del clan”. Un mondo parallelo nella città di Brindisi, con rapporti e alleanze anche nei paesi della provincia, descritto nelle dichiarazioni di Andrea Romano, 34 anni, che a dicembre scorso ha deciso di collaborare con la giustizia. L’ultimo pentito della nuova generazione della Scu, che ormai ha cambiato pelle e metodi. La decisione di collaborare è maturata nel carcere piemontese, dove stava scontando l’ergastolo per aver ammazzato, insieme ad altre due persone, l’1 novembre del 2014 Cosimo Tedesco, e per aver ferito il figlio Luca.
Romano, affiliato alla frangia del mesagnese Francesco Campana, dichiara ai magistrati di essere lui a capo del clan brindisino, grazie alla massima carica di “crociata” che gli era stata conferita, dote superiore anche a quella di padrino. Sino alla data del suo pentimento (il 18 dicembre scorso) avrebbe gestito principalmente il traffico di droga e la gestione dei gruppi di fuoco. “Sino ad oggi sono io il reggente a Brindisi”, dice. Per la fornitura della sostanza stupefacente avrebbe stretto un’alleanza tra le varie famiglia della provincia di Brindisi. “Durante la mia detenzione a Taranto – aggiunge – io, Luca Ciampi ed Ivano Cannalire facemmo un’alleanza per il traffico della droga”.
Per convincere i magistrati della Dda di Lecce della attendibilità delle sue dichiarazioni precisa subito di avere un cellullare in carcere. “Sono detenuto dal 2014 – afferma il collaboratore – e ad oggi ho la piena disponibilità di un telefono cellulare nella mia cella”. Questo per dimostrare la sua forza e la sua capacità di poter comunicare all’esterno e mantenere così i rapporti e la gestione. In ogni carcere in cui Romano avrebbe messo piede in questi anni avrebbe avuto con se un telefono. Era accaduto a Cosenza dove riusciva a comunicare grazie ad un cellullare utilizzato dai capi clan calabresi, ma anche ad Oristano, così come a Voghera dove avrebbe impartito ordini ai suoi affiliati. Da qui avrebbe anche comunicato con Alessandro Coffa (suo cognato, suo braccio destro, come lui dichiara) che allora era detenuto in un altro carcere, ma aveva anche lui la disponibilità di un telefono. “Ricordo in particolare – dice – che nel 2019 (nome coperto da omissis) mi aggiornò circa lo svolgimento di un summit presso la casa al mare di (omissis), durante il quale si è discusso di armi, droga, estorsioni e controllo del territorio”. Insomma nulla avrebbe impedito a Romano, pur ergastolano, di continuare ad avere contatti con i suoi sodali. E non importava in quale carcere fosse, o quanto questo fosse lontano. Un sistema di sicurezza che avrebbe fatto acqua da tutte le parti. Eluso dai detenuti senza particolari e sofisticate tecniche, anzi alcune si sono mostrate molto rudimentali. Esemplare è il caso del carcere di Brindisi dove tutto sarebbe avvenuto tramite una finestra. La finestra dell’infermeria. È da qui che sarebbero passati i pizzini, quando le comunicazioni erano urgenti. Pizzini in entrata e in uscita, attraverso il vecchio metodo del lancio di un filo, che avrebbe permesso di portare in carcere anche la droga. “Nel mese di dicembre 2016 – racconta Romano – sono ritornato nel carcere di Brindisi. In alcune circostanza quando dovevo dare disposizioni urgenti, ci servivamo di (omissis) detenuto prima di fronte alla mia cella e successivamente spostato in infermeria, dove vi era una finestra che si affacciava direttamente sulla strada e quindi era possibile comunicare con l’esterno. In particolare venivano i miei nipoti”. Romano spiega esattamente il meccanismo: “Dalla finestra dell’infermeria, proprio adiacente al muro di cinta del carcere, era possibile inviare e ricevere pizzini nonché sostanza stupefacente, attraverso il lancio con una mazza di legno legata ad un filo. La mazza di legno, introdotta attraverso la grata, fungeva da peso per far arrivare il filo oltre il muro di cinta. Una volta che il lancio andava a buon fine chi si trovava all’esterno sganciava la mazza di legno e collegava l’involucro contenente sostanza stupefacente o i pizzini che venivano recuperati con il filo all’interno della cella. Tali operazioni avvenivano verso mezzanotte durante il cambio turno del personale della polizia penitenziaria”.
Il carcere di Brindisi si trova nel cuore della città, a cavallo tra i quartieri Commenda e Capuccini, con l’ingresso principale sulla via Appia. La struttura carceraria spunta tra le palazzine, anche di nuova costruzione, i quali balconi si affacciano sul cortile della casa circondariale. Gli abitanti della zona raccontano di continui fuochi d’artificio fatti esplodere per i compleanni dei detenuti o per altre ricorrenze, e di messaggi criptati indirizzati a loro, che sono separati solo da un mura di cinta.
Il collaboratore nelle sue dichiarazioni fa poi i nomi dei destinatari dei suoi messaggi, sodali che nel frattempo era stati scarcerati o che si trovavano liberi e si occupavano soprattutto dello spaccio nella piazza brindisina. La droga, in particolar modo la cocaina, arrivava dalla Grecia nascosta su mezzi di trasporto imbarcati su navi di linea, mentre tonnellate di marijuana e numerose armi sarebbero arrivate dall’Albania trasportati sui gommoni e sbarcati nella zona di Cerano. Tra le attività illecite il pentito cita anche le estorsioni alle attività commerciali e l’imposizione delle slot macchine negli esercizi pubblici. Di questa attività si sarebbe occupato soprattutto un altro clan presente in città (anche qui fa nome e cognome). Ogni 15 giorni, o mensilmente, gli affiliati andavano a riscuotere l’estorsione. Nel momento in cui qualcuno si rifiutava di pagare venivano organizzate delle azioni punitive. Si parla di circa 3mila o 2500 euro al mese. Una volta il titolare di un bar di Brindisi fu picchiato a sangue per non aver corrisposto una mensilità.
Nel frattempo, in questi sei anni, Romano fa il giro delle carceri italiane. Nel 2020 arriva nel carcere di Tolmezzo e viene posto in isolamento. Ma questo, sempre secondo il suo racconto, non gli impedisce di mantenere i contatti con gli altri detenuti e soprattutto con l’esterno. Non appena giunge infatti un detenuto da Bologna, amico di un brindisino, riesce ad ottenere da questi un microtelefono cellulare. “Ho scritto subito una lettera (sul destinatario c’è l’omissis) – racconta ancora ai magistrati – chiedendo che mi venisse inviata una microsim pulita. Effettivamente la sim mi arrivò, era nascosta in un cartoncino augurale apri e chiudi, era incollata dietro ad un cuoricino”. E così che Romano avrebbe ripreso i suoi contatti e impartito disposizioni. Tutto questo sino al 18 dicembre 2020, giorno in cui ha deciso di collaborare con la giustizia. Ha presentato un memoriale con nomi, ruoli e affari che ridisegnerebbero una parte della criminalità organizzata a Brindisi, ha buttato nel calderone tra gli altri sua moglie, sua suocera, suo cognato ed anche altri suoi familiari in quello che è stato battezzato il clan Romano- Coffa. I magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Lecce stanno valutando l’attendibilità della sue dichiarazioni per decidere se avanzare richiesta di protezione. Intanto il 10 febbraio scorso una bomba ha fatto saltare in aria il chiosco di rivendita di pane intestato alla moglie di Romano, da poco completato e non ancora inaugurato.
Lucia Portolano
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