BRINDISI- (Da Il7 Magazine) Migliaia di ettari di terra da nord a sud di Brindisi, da Giancola a Salina Punta della Contessa, passando attraverso l’area industriale, terra che qualcuno continua a coltivare per passione e per necessità, ma che da sola non riesce più a sfamare le famiglie. E’ l’agricoltura che a Brindisi oramai si perde, un po’ per la crisi, un po’ per la concorrenza dei mercati esteri, un po’ perché come dicono i contadini qui : “di agricoltura non si vive”. In queste terre, quelle ancora coltivate, ci sono vigneti, carciofeti, grano, ortaggi e frutta. Portare avanti una coltura non è semplice ne sa qualcosa Teodoro Consenti che su questa terra c’è nato e cresciuto: “Ero piccolo quando ho cominciato a venire sui campi, avrà avuto al massimo dieci anni- racconta Teodoro- ho sempre lavorato in campagna e prima di me mio padre e mio nonno. Non conosciamo altro mestiere ma se devo dirla tutta, un tempo si riusciva a campare oggi non più”.
Teodoro Consenti, come gran parte degli agricoltori brindisini fa parte di quella generazione che ha ereditato il mestiere dal padre , ma oggi nessuno dei suoi figli fa il suo mestiere perché le spese e le difficoltà sono troppe. “E’ un mestiere che qui a Brindisi andrà a morire- dice- non ne vale la pena. Oggi per portare il pane a casa devi affrontare mille problemi e tante spese. Basta guardarsi intorno per accorgersi di quanti campi sono stati abbandonati. C’è chi aspetta la pensione per farlo ma c’è anche chi rinuncia prima”. In questo momento gli agricoltori brindisini sono alle prese con l’Arneo e il pagamento dei tributi. “Sono arrivati gli avvisi di pignoramento perché non abbiamo pagato l’Arneo del 2014- racconta Teodoro Consenti- ma guardatevi intorno, guardate in che stato sono ridotti i canali. Come facciamo a pagare per un servizio che non ci viene dato”. L’Arneo, il Consorzio di bonifica, in questi giorni sta inviando numerose cartelle attraverso la Soget, l’istituto incaricato per la riscossione tributi. L’imposta è dovuta per il servizio di pulizia dei canali pluviali che attraversano i terreni ma gli agricoltori dicono che i canali non vengono ripuliti da anni e che ogni volta che piove esondano perché sono pieni di vegetazione e detriti. L’acqua dei canali invadono così i campi e nove volte su dieci il raccolto si perde. “Rendetevi conto -dice Consenti- ci chiedono di pagare sette, ottocento euro. Per cosa, se poi ci aggiungi l’Imu, le spese per sostenere le colture, la manodopera. Non te ne esci più. Qui c’è gente che ci va a perdere”.
A volte però i conti non tornano e ciò che si spende non rientra nel guadagno.“In campagna non puoi parlare di stipendio, non esiste lo stipendio. In campagna è una avventura, perché dipendi dal tempo, dipendi dai problemi che incontri, dipendi dalle spese che ogni giorno aumentano- dice Teodoro Consenti- Viviamo di speranza, per coltivare devi investire soldi, se ci va bene mangiamo. C’è un detto tra gli agricoltori: il tempo ti giusta e il tempo ti guasta”.
Ora è il periodo in cui si cominciano a preparare i terreni, bisogna comprare le piantine , per realizzare un orto di medie dimensioni, tre ettari di meloni ad esempio, la spesa oscilla tra i tremila e i tremila e cinquecento euro. Le piante si pagano in anticipo, è questa una delle spese fisse per gli agricoltori che alla fine non sanno se il raccolto sarà buono o meno. Emblematico il caso di un agricoltore che, carte alla mano, mostra le entrate e le uscite dell’ultimo anno. I conti sul serio non tornano, basta dare un’occhiata alle voci in uscita che ammontano tra spese vive, manutenzione e lavori a quasi 40mila euro , mentre le entrate sono poco più di 27mila euro. In pratica c’è una perdita di 13mila euro, senza considerare il lavoro e il tempo trascorso su quei campi. Eppure c’è qualcuno che nonostante le difficoltà ha fatto dell’agricoltura una occasione di lavoro, è il caso di Paolo Sicilia, uno tra i più giovani tra questi agricoltori. Paolo Sicilia ha 28 anni, ha scelto di fare l’agricoltore perché non riusciva a trovare altro lavoro. Paolo ha una compagna e una bimba di pochi anni, tirare su la famiglia non è semplice neppure per lui, la compagna lavora e contribuisce alle spese e lui passa gran parte del tempo sul trattore.
“Mi alzo la mattina alle 4.30- racconta Paolo- ma la giornata è lunga. Mi occupo dei campi e della vendita dei miei prodotti. Qui vengono a rifornirsi i grossisti. Torno a casa verso ora di cena”. Paolo fa tanti sacrifici, sacrifici che chi lavora la terra come lui conosce bene, il guadagno è ciò che riesce a vendere ai grossisti e a conti fatti non è un gran ché. “Vendo carciofi, i grossisti me li pagano a 20 centesimi l’uno- racconta, ancora, Paolo- ma poi quando arrivano nei supermercati o sulle bancarelle li vendono a 50 , 60 centesimi. Chi ci guadagna veramente sono loro”. Paolo Sicilia è un ragazzo volenteroso e un gran lavoratore, è diplomato e nella vita avrebbe voluto fare altro ma non gli è stata data possibilità. “Ho il diploma da ragioniere- dice il ragazzo- dopo aver finito gli studi ho provato a cercare lavoro con il mio diploma ma non ho trovato nulla. La mia famiglia aveva dieci ettari di terra, mio padre è una guardia forestale, e allora ho deciso di dedicarmi all’agricoltura”. Paolo così ha scelto l’unica strada che gli consentiva di lavorare: la terra. Oggi Paolo coltiva carciofi e meloni, riesce a guadagnare quel tanto che basta per mettere il piatto a tavola.
Qui tra questi campi sono pochi i ragazzi che hanno deciso di proseguire il mestiere del padre, anzi, forse oltre a Paolo, non ve ne sono più di ragazzi che hanno affidato il loro futuro alla terra. Le braccia che lavorano tra queste zolle riarse dal sole sono quelle dei giovani stranieri che si offrono di lavorare per cinque , sei euro l’ora. Sono braccianti stagionali, fanno il loro lavoro e una volta terminato il periodo del raccolto spariscono. “Meno male che ci sono i ragazzi di colore, e si pagano cinque , sei euro all’ora- dicono gli agricoltori- altrimenti nessuno viene a lavorare qui. Gli italiani non ne vogliono sapere. Finché la terra produce, noi cerchiamo di andare avanti ma se dobbiamo pensare ai nostri figli qui nessuno vuole vederli tra i campi a spezzarsi la schiena e poi per cosa. Come abbiamo detto: di agricoltura non si vive più”.
L’ultima mazzata per gli agricoltori brindisini arriva dal mercato estero, nei nostri porti sbarca grano e olio turco ad un prezzo decisamente inferiore a quello italiano. La concorrenza è spietata e questo non fa altro che danneggiare le produzioni locali.
“Quando macinano il grano mescolano il prodotto italiano con quello straniero- dice Giuseppe Nigro- solo che mettono tre quarti di grano turco e un quarto di grano italiano. Lo rimacinano e poi sopra ci mettono l’etichetta made in Italy, ma di italiano hanno ben poco. Così uccidono il nostro mercato”.
Lucia Pezzuto per Il7 Magazine
Quello scritto nell’articolo é verissimo e andrà sempre peggio se la nostra agricoltura non saprà reagire, con questo intendo che non si può più ragionare come 50 anni fa che si preparava 1o2 colture (con cultivar standardizzate)su decine di ettari e aspettarsi che il consorzio ti dia un giusto prezzo, esiste il mercato globale dove possono produrre tutto a metà prezzo, l’unica soluzione è riformare tutto, anche la testa dei contadini(che purtroppo sono i primi a non capire) bisognerebbe creare i distretti alimentari dove le aziende possano unirsi e acquistare mezzi in partecipazioni e anche avere un altro modo di contrattare le vendite; bisognerebbe rilanciare la diversificazione delle culture, implementare le culture dimenticate e cercare di portarsi su sistemi di cultura biologici dove l’azienda agricola non è solo un mera produttrice ma si erige a baluardo della biodiversita e del rispetto della natura tramite attività che coinvolgano tutti, sarà un discorso utopistico ma se non si andrà in questa direzione l’agricoltura in Italia andrà sempre peggio facendo si che chi è grosso vada avanti e le piccole aziende schiacciate dalla concorrenza…
Proprio oggi stavo vedendo in un supermercato, io sono in Toscana, il prezzo di pesche, frutto attuale in tutta Italia,di provenienza Spagnola e altri paesi che non era al di sotto di 2,29 al kg, le nostre pesche nazionali non c’erano e quelle pochissime rare al di sotto di 1,50 e messe al bando senza pubblicità. Allora sorgeva il pensiero, si devono comprare pesche straniere a prezzi alti e lasciare che le aziende agricole Italiane vadano in fallimento e devono buttare via il prodotto; VERGOGNA dei NS parlamentari che vanno a fare accordi truffaldini con grossi commercianti ladroni esteri: chissà che tipo di interscambi sporchi ci sono sotto. Ci vorebbe un TIZIO che con “il bastone” dicesse BASTA!!!!
Sante parole specialmente per la concorrenza e non solo
Una realtà spietata, di cui si parla poco. Io ho 80 anni e leggendo l’articolo mi sono commosso, poichè ho rivissuto il periodo dei miei 15 – 20 anni, quando lavoravo in campagna con mio padre; mi ritengo fortunato di esserne uscito. A quanto pare, dopo 60 anni “di progresso” la situazione sembra peggiorata.
Ora che sono in pensione, sono tornato a lavorare i campi, ma lo faccio per hobby, per passione, non certo per i ricavi, che restano comunque in negativo.