NEL LIBROSO MONDO DI FRANCESCA (RUBRICA)- Ho amato Montale sin dal nostro primo incontro per l’approccio al vivere e soprattutto al male di vivere che ha dimostrato nella sua poetica e nella sua vicenda biografica. Il suo è un approccio lucido, disincantato, non è assolutamente drammatico e struggente: è sublimemente tragico, non ci sono accenti o accessi o eccessi nel suo verseggiare: rimane sempre una straordinaria, dilaniante misura nei suoi versi. È un poeta uomo, un poeta che non dimentica la propria umanità pur nelle vette eccelse raggiunte dalla sua opera. Non ha mai scelto di elevarsi al di sopra delle umane vicende così drammatiche della storia che lui attraversa, altresì non è stato mai totalmente assorbito da esse: è riuscito a conservare un distacco sufficiente che gli consentisse una straordinaria chiarezza di visione senza cadere nel gorgo della disperazione storica. Lì dove invece il gorgo ha rischiato spesso di inghiottirlo è stato nella sua vicenda biografica: Montale ha vissuto e non ha mai derogato alla vita, al suo essere marito, amante. La vita ha avuto un ruolo preponderante rispetto al poetare o almeno questo è quello che io ho colto ed è ciò che me lo ha fatto amare, Montale non è stato un uomo che ha dimenticato l’amore e la propria donna per la carriera e la sfera lavorativa, non è stato un uomo egoista. L’aspetto che della sua poetica mi ha estremamente affascinato è quello del correlativo oggettivo che lui mutua da Thomas Stearns Eliot, il riuscire cioè a partire da un oggetto ed elevarsi al di sopra ed al di là di esso per astrarre ed arrivare a quasi a prescindere materialmente e formalmente da esso ma mai concettualmente; mi ha fatto innamorare di lui questa straordinaria capacità di far cadere il velo che copre il materiale con delicatezza senza violenza senza livore ma con estremo garbo sempre, il riuscire a sollevare delicatamente quasi come una cortina, una tenda leggera, per lasciar filtrare prima e poi passare del tutto la luce del reale dove per reale non si intende ciò che l’occhio vede ma ciò che l’occhio sente, percepisce, avverte. Ecco, quello che di Montale mi ha rapito è stata la sua compostezza, il suo essere assolutamente dignitoso. È quasi come se i suoi versi fossero il risultato di un processo di studio, di decantazione del dolore. Noi leggiamo del suo dolore e del suo male di vivere nel momento successivo al lutto, i suoi versi sono successivi alla elaborazione del lutto e del senso di perdita di valore del vivere, Montale non ci schiaffeggia non ci urla contro la sua disperazione, Montale ce la pone davanti dopo averla esaminata, scandagliata, vissuta e sofferta fino nel profondo, fin dentro le ossa; ce la rivela e ce la svela nel momento in cui non può più fargli male, è un estremo pudore il suo, è quasi una forma eccelsa di rispetto per il lettore, non vuole shockare, non vuole muovere alle lacrime, non vuole straziare, non vuole pietà né compassione: Montale ponendo lucidamente sul foglio il proprio strazio vuole e cerca condivisione da parte del lettore. Chi non conosce Montale dovrebbe accostarvisi, dovrebbe conoscere la sua estrema eleganza e raffinatezza e la sua sobrietà sostanziale, non sempre corrispondente ad altrettanta sobrietà nella scelta lessicale e del verseggiare perché per tale aspetto troviamo in lui anzi spesso termini e soluzioni metriche anche particolarmente ricercate ed è qui che forse compensa la misura che lo contraddistingue nel porgere i sentimenti: perché ciò che versa sul foglio non risulti banale, proprio in virtù del fatto che egli lo ha già spogliato della drammaticità dunque di accenti di sorta, egli ricorre a termini, scelte lessicali, scelte metriche molto particolari. Amerete Montale al primo verso!
Francesca Goduto
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